In corso il Consiglio Nazionale, impegnato a discutere le linee dell'”autoriforma” imposta dall’Ue e dal Governo. In sintesi: esame e preparazione universitaria per tutti i nuovi giornalisti, poi chiamati a scegliere se diventare professionisti e pubblicisti. Ma è il “regime transitorio” a far discutere davvero…

Dev’essersi rotto uno specchio nella sede dell’Odg a Roma. E per questo si profilano sette anni di guai e di baruffe, sebbene eufemisticamente ribattezzati “regime transitorio” ad indicare il periodo che la riforma presentata dal presidente Jacopino prevede prima della definitiva entrata a regime del nuovo ordinamento, destinato a regolamentare la professione dal 2020 in poi.
L’argomento è caldissimo e ovviamente da giorni tra gli addetti ai lavori già non si parla d’altro. E basta una parola, o uno spiffero, per scatenare equivoci e congetture, alimentare proteste e timori. Segno inequivocabile del malessere che attraversa la categoria.
In prima fila i pubblicisti, a proposito dei quali si è più volte fantasiosamente parlato di “abolizione“. Subito dietro gli aspiranti pubblicisti, che ora si chiedono che percorso dovranno seguire. Meno preoccupati, per l’insana convinzione di trovarsi in una botte di ferro (tranne poche eccezioni), i professionisti. Allarmatissimi i precari, che nella riforma ripongono molte, forse troppe speranze per un cambio di stato professionale. Tutti giustamente ansiosi di sapere che succederà nell’immediato, sempre ammesso che abbia un senso chiamare “immediato” un interregno che dura come una Presidenza della Repubblica.
Ne dà ampio resoconto (qui) il sempre puntuale collega Antonello Antonelli, al quale rimando per i dettagli.
Intanto è un gran vociare di diritti acquisiti, sanatorie e distinguo, sullo sfondo di un clima di incertezza generale e di una nemmeno troppo dissimulata atmosfera da campagna elettorale, visto che a febbraio si voterà per il rinnovo dei vertici dell’Inpgi, la cassa di previdenza della categoria, e che per i candidati questa è un’occasione imperdibile per mettersi in mostra, pontificare, farsi propaganda e clientele.
Poche le certezze fin qui assodate.
La prima è che, dal 13 agosto 2012, chi vorrà diventare giornalista dovrà superare un esame di stato. E solo dopo, in base alla propria situazione personale, decidere se iscriversi all’elenco dei professionisti (attività esclusiva o prevalente) o dei pubblicisti (attività non prevalente).
Per l’accesso all’esame sarà necessario un praticantato di 18 mesi, oppure un contratto di assunzione, oppure un master postuniversitario o un titolo equipollente rilasciato da una scuola di giornalismo riconosciuta dall’Ordine (ma sul punto le cose non sono ancora chiare).
Non c’è molto da aggiungere, perchè l’indirizzo mi pare evidente: professione aperta a tutti, ma con un filtro all’ingresso molto più selettivo di prima.
Credo che, in sostanza, si tradurrà nella nascita di molti meno giornalisti di quanti ne siano nati durante il “giornalistificio” degli ultimi 15 anni. E questo è un bene in assoluto.
Ho molti più dubbi invece sul fatto che questo, e l’interminabile periodo di transizione, risolvano i problemi della categoria, che ormai è già irreversibilmente pletorica (siamo in centodiecimila!) e col fiato cortissimo.
Qualcuno dirà che non mi va bene niente.
Non è vero.
A me la riforma va bene, perchè procede nel senso che ho sempre predicato, salvo vedere dettagli ancora non messi a fuoco forse nemmeno dai vertici dell’OdG.
La domanda è se il tempo necessario per riportare la professione alle dimensioni fisiologiche dettate dal mercato e dalla congiuntura sarà inferiore a quello dopo il quale il giornalismo italiano imploderà sotto il peso della mancanza di risorse e della sovrappopolazione giornalistica.
Vista da questa prospettiva meno futuribile e più pedestre, l’orizzonte appare assai fosco.