…e io vorrei celebrarla con un ricordo personale. Perchè a poche generazioni è capitato di conoscere e di frequentare nonni che fossero non solo nonni, ma irripetibili ponti tra mondi e vite tanto diverse. Ognuno con la sua storia. E’ un modo per dirle grazie.

Oggi mia nonna avrebbe compiuto cent’anni.
Non ce l’ha fatta per poco. L’ha portata via un malanno banale qualche tempo fa, facendosi beffe di noi, della sua lucidità e, tutto sommato, della sua salute. Nonostante gli acciacchi.
Quand’ero bambino, il solo pensiero che un giorno potesse morire mi gettava in una disperazione cupa e senza vie di uscita. Perchè ai miei occhi lei non rappresentava solo se stessa, ma la vita, il suo senso, l’insieme di tutte le cose, la determinazione tipicamente infantile a non piegarsi mai all’ineluttabile, la mancata accettazione delle possibilità di cambiamento di un mondo che era il tuo e che pareva, doveva essere eterno.
Mia nonna mi ha traghettato. Per quasi mezzo secolo mi ha navigato accanto. Dal suo mondo al mio. Dalla sobrietà del dopoguerra all’era del boom e agli anni del consumismo. Dall’epopea delle famiglie allargate alle monadi di quelle unifamiliari. Dal paese alla città e viceversa. Dalle vecchie, tortuose statali di allora alle dritte ma monotone autostrade di oggi. Dalle guerre mondiali alla guerra del Golfo.
Soprattutto ha popolato il mio universo di bambino. Non solo con le storie che, come tutte le nonne, raccontava. Ma impersonando e interpretando lei stessa i mille personaggi ispirati dalle sue novelle e dalla mia fantasia. Saburo era il cinesino tonto che per “tirarsi dietro l’uscio” scardinava il portone di casa. Giulio e Ciompello erano, con me e lei, i protagonisti di un gioco rituale, una specie di situation comedy casereccia ambientata attorno a una piscina immaginaria. O meglio, vista l’epoca, a una sorta di grande pozzanghera (avete presente Alberto Sordi che fa Tarzan in un rigagnolo alle porte di Roma?) dove una torma di chiassosi ragazzi andava a fare il bagno. Giulio era quello composto, serio, bravo, studioso. Ciompello (che nome…) era quello scanzonato, svogliato e un po’ discolo. Io ero io. Lei era al tempo stesso la voce narrante e, di volta in volta, uno degli altri bambini. Il tutto aveva i contorni di un lettone matrimoniale al piano di sopra di quella strana casa di paese, una sorta di sobria, quasi spoglia camera degli ospiti direi, in cui il letto era in sostanza la piscina e la storia era la scusa per consentirmi di saltare, tuffandomi, sulle molle del materasso. Lei, con infinita pazienza, intrecciava le fasi del racconto con i discorsi diretti dei protagonisti. Io, come nel living theater, suggerivo scenari, improvvisavo canovacci, introducevo nuove figure, imprevisti, colpi di scena. Fuori, la luce obliqua e immobile delle cinque del pomeriggio: quella che segna il declinare della giornata e preannuncia un tramonto tuttavia ancora lontano da venire.
Ricorrendo più o meno alla medesima tecnica narrativa, d’inverno mia nonna mi leggeva i giornalini. D’inverno, appunto. Perchè d’estate ero sempre fuori, c’erano la mamma e i fratelli e il pallone e non c’era bisogno di intrattenermi troppo. Erano fumetti d’avventure. Il Piccolo Ranger, ad esempio, in quei buffi albi di formato orizzontale, ricalcati, credo, proprio sulle strisce dei giornali. Lei prima mi descriveva la scena, per darmi il tempo di immaginarla, e poi mi leggeva i dialoghi. Così per ore, mentre il vento fischiava e la pioggia batteva sui vetri gelidi. Non mi ricordo di letture dei fumetti con lo sfondo di un cielo azzurro, ma sempre plumbeo e piovigginoso.
Era pigra, mia nonna. Un tipo sedentario, casalingo. Le faccende pesanti le sbrigava tutte una fantesca d’altri tempi, figura sospesa tra la caricatura e un personaggio da Castello di Fratta. Mia nonna disponeva, dirigeva e poi si dedicava a me. Dicevano fossi il suo nipote preferito. Lei negava, ma io credo che fosse vero. L’ho sempre un po’ saputo e anche sempre sperato, perchè percepivo che l’amore di mia nonna era incondizionato. Così come era incondizionato il mio.
Una volta che mi invitarono ad andare a pesca (in un fiumiciattolo lontano meno di un chilometro) lei impiegò tutta la giornata per aiutarmi a rintracciare in soffitta (dall’abbaino si vedeva il paese dall’alto e ricordo che mi sorpresi parecchio nel constatare per la prima volta la sua forma ovale, arroccata sul colle, perchè fino ad allora, complici anche le mie inesauribili energie, tutto lì mi era parso in piano) la vecchia canna di bambù appartenuta quindici anni prima a mio zio, il che mi apparve come un’operazione di alta archeologia. E poi passò tutta la notte a convincermi a non andare, paventando risvegli anticipati, pioggia, pericoli, imprevisti, mostri e draghi. Alla fine finsi di crederci e rinunciai. Ma lo feci solo perchè avevo capito benissimo che la preoccupazione che mi accadesse qualcosa l’avrebbe fatta stare male. Così, il mattino dopo alle 6, andò in scena una commedia che in futuro avrebbe avuto molte repliche: suonano, la fantesca si affaccia, dice che il bambino ha la febbre e addio pesca. Alla faccia dell’espressione delusa dei miei amici.
Che proprio amici-amicissimi non erano, perchè io ero il nipote del dottore e a quei tempi, nei paesi, il dottore era un’autorità, un semidio, una persona rispettata, benvoluta e forse un po’ temuta. Quindi finiva che quando andavo nelle case degli altri bambini, le loro mamme mi riservavano una tale deferenza che spesso provocava l’imbarazzo mio e quello dei coetanei.
Questo era un problema. Perchè io e mia nonna, nelle interminabili settimane che passavamo insieme (vacanze? Malattie immaginarie? Probabilmente tutte e due le cose) non ci separavamo mai. Così, le rare volte che lei decideva, spesso su insistenza di lui, di seguire mio nonno nei suoi giri di visite, io la accompagnavo. L’idea di stare con mia nonna, il che equivaleva a dire una forma di intrattenimento spontaneo e continuo, mi esaltava e mi rassicurava. Peccato però che a incrinare quest’idillio ci fossero gli altri. Nelle frazioni, l’arrivo della moglie del dottore era un evento che implicava un moltiplicarsi di affannose, sincerissime ma per me noiosissime cortesie. Figuriamoci quando il dottore era in compagnia anche del nipotino: dolcetti, carezze, complimenti, inviti a casa. Che non solo mi mettevano a disagio e mi costringevano a comportarmi educatamente (cioè a dire buongiorno e buonasera, ringraziare, star buono e tacere), ma soprattutto interrompevano quel filo diretto di sintonia che mi legava a mia nonna.
Solo oggi, naturalmente, mi rendo conto di quanto in quegli anni lei non avesse che occhi e mente solo per me. Era una dedizione assoluta, la sua, un cordone ombelicale capace di creare un microcosmo costante nel quale io, inconsapevolmente, sguazzavo, nuotavo, esploravo. Un mondo parallelo che poteva sospendersi – come si sospendeva, è ovvio, quando tornavo in città – ma non poteva dissolversi. Nel momento in cui fossi stato di nuovo lì, tutto sarebbe ricominciato esattamente dal punto in cui si era interrotto.
Mia nonna, che io mi ricordi, non mi ha mai aiutato a fare i compiti. Anche se era diplomata “da maestra”. Primo, perchè era impensabile che io impiegassi a fare i compiti il tempo che passavo con lei. Secondo, perchè lei non era il tipo adatto a quelle cose. Era come se, pur avendo allora quasi sessant’anni (i sessant’anni dei ’60, non di oggi), anche lei si divertisse a giocare con me. L’idea dei compiti nemmeno le veniva in mente. Se li menzionava era per pura forma, quasi per dovere rituale, e lo faceva con una tale delicatezza da sottintendere che ci si sarebbe comunque potuto pensare dopo. E poi non era pedante, non era adatta a correggere, a risentire le lezioni. Era fatta per raccontare. Di Saburo e Ciompello come di Ettore e Achille, della Grande Guerra e di Rolando a Roncisvalle, di vecchi aneddoti familiari e del Gatto con gli stivali. Nemmeno leggere – fumetti a parte – era la sua specialità. Leggermi le novelle, da un librone con le pagine spesse e la copertina rosso vivo, da cui qualcuno (io?) aveva chissà perchè cercato di strappare l’illustrazione, era incombenza riservata alla fantesca. Che sedeva su una seggiolina tenendo il volume sulle ginocchia e, per non perdere il rigo, si accompagnava con il dito, producendo così un fruscio indimenticabile, caldo e cadenzato, per me divenuto il suono della lettura. Il polpastrello un po’ ruvido sulla pagina un po’ ruvida, lo scorrere spezzato da una parola a un’altra, una sorta di punto-linea-punto da alfabeto morse della mia infanzia.
Era bello da ascoltare. Ma stare con mia nonna era un’altra cosa.
Andavamo fuori e mi comprava i fulminanti. Non quelli rossi di plastica, da ragazzetti, ma quelli detonanti, di metallo. Si diceva che fossero pericolosi per via delle schegge e forse era vero. Lei lo sapeva. Ma la voglia di dirmi di sì era più forte della paura e così io uscivo dalla cooperativa con le mani in tasca e la mia scrocchiante scatola di fulminanti stretti nel pugno, già pregustando gli spari echeggianti nel lungo corridoio di casa, istoriato con le pitture rossicce del finto marmo. La seconda tappa era da Gano, in edicola, per comprare i giornalini. Per l’arrivo di Topolino si contavano i giorni. La terza, di solito, era una noiosa sosta al negozio di stoffe lì accanto o la spesa in macelleria.
L’ingenuità mi impediva di notare la singolarità dei nomi della gente che incontravo e che popolava il borgo. Avevo frequentazioni quotidiane con figure dai nomi epici, antichi, oggi desueti, sintomo di cultura lontanissimamente echeggiata e a volte scimmiottata, di una sapienza inconsapevole, di usi e tradizioni profondamente rurali: Gano, appunto (chi conosce qualcuno che si chiama Gano, l’eroe negativo della Chanson de Roland? E chi – lì, allora – conosceva i poemi carolingi?), Socrate il falegname, Azzurro il macellaio, Genoveffa la fruttivendola. La signora Lisetta. Fulvia la postina. Strano, a pensarci oggi, che in quel posto nessuno si chiamasse Galgano, come il santo che era nato lì e in onore del quale sarebbe stata fondata, nei pressi, la famosa abbazia. O forse il nome di Gano il giornalaio non era riferito a quello di Magonza, ma era una contrazione di Galgano? Il dubbio, però, mi è venuto solo ora.
C’era un soltanto un momento in cui, durante i lunghi soggiorni, mi staccavo un po’ da mia nonna. Era quando, con mio nonno, andavo a vedere le piene del fiume. Un appuntamento che attendevo, impaziente, per mesi. Erano le piene non della Merse, ma della Feccia, un piccolo affluente capace tuttavia, nelle notti d’autunno, di una furia spaventosa. O che almeno a me, illuminata dai fari della Ford Taunus, pareva tale. Io e lui scendevamo dall’auto, barcollando sui ciottoli e sporcandoci le scarpe di fango, fino al punto estremo, per sfiorare l’acqua. E io, ipnotizzato dalla scena e dai suoni assordanti, mi perdevo nei gorghi, vagheggiavo naufragi e marosi, contemplavo assorto rami e spesso interi tronchi d’albero farsi inghiottire dalla corrente e sparire a valle, scavalcando con un guizzo il guado. Era roba da uomini, quella. Mia nonna non poteva stare lì. Ma neppure rimanere troppo lontano. Ci guardava dall’auto, infatti, infreddolita e, in cuor suo, forse un po’ annoiata. Comunque c’era, pronta a riprendere, sulla via del ritorno, il filo di qualche storia di cui quel fiume mugghiante diventava immediatamente protagonista.
Sono passati gli anni, poi i decenni. E’ cambiata la vita mia, la sua e il mondo intorno. Sono mutati il luoghi e gli scenari. Niente più fumetti, niente più casa nel borgo, niente più vacanze-rifugio in quell’enclave cristallizzata e avventurosa che accompagnò la mia infanzia.
Eppure, sottaciutamente, è come se anche durante la mia adolescenza, la mia gioventù e perfino la mia maturità quei giochi interrotti allora avessero in ogni momento potuto riprendere. Come se i balocchi fossero stati ordinatamente riposti in quella soffitta, pronti a essere riesumati al pari della canna da pesca di mio zio. Intatti, integri, appena un po’ polverosi, ma mai inutili, mai morti. Separati da noi solo da una porta la cui chiave era custodita in una tasca sicura, da una scala ripida con l’abbaino in cima aperto sul piazzone e da una seconda più cigolante porticina sulla destra. Io davanti, di corsa. Lei dietro. Alle nostre spalle, l’eco delle mie grida.
Oggi mia nonna avrebbe compiuto cent’anni.
Vale atque vale.