E’ mancata oggi una delle chitarre storiche, anzi mitiche, del rock. Una vita tormentata, segnata, svanita nel sonno.

 

Per la mia generazione, una generazione di mezzo, quel leopardo ruggente sullo sfondo nero in copertina e quel chitarrista sfuggente, anzi sfuggito per quasi un decennio dal proscenio della musica, hanno rappresentato un mito inossidabile. Un benchmark, come si dice.
I misteri sulla psiche e il destino del musicista, la rarità di un album a lungo introvabile per chi, causa età o budget, prima non aveva potuto comprarlo nei tempi giusti e poi non poteva accedere a certi mercati, sempre accompagnato però da recensioni mistiche, esercitavano sui giovani appassionati un fascino inarginabile.
Poi il ritorno un po’ a sorpresa, la sensazione di una mente un po’ svaporata, la vecchiaia e oggi, improvvisa, la scomparsa a soli 73 anni.
Parlo di Peter Green, già chitarristica dei Bluesbreakers di Mayall al posto di Clapton, poi della stagione più felice ed epica dei Fleetwood Mac, fino al ritiro nel 1970.
Parlo del suo primo disco solista, “The end of the game“.
Questo non è un obituary, ma solo un malinconico ricordo personale.
Game over, Peter.

Peter Green, “The end of the game