di URANO CUPISTI
Immaginate un sedicenne che nel 1962 ha l’opportunità di varcare la cortina di ferro ed entrare nell’impenetrabile mondo del socialismo reale per scoprire come, in acque turche, le merci russe cambiavano destinazione.

 

Il piano di viaggio era questo: Trieste – Il Pireo (Grecia) – Varna (Bulgaria) – Costanza (Romania) – Odessa (Urss) – Sebastopoli (Urss) – Novorossijsk (Urss) – Batumi (Urss) – Samsun (Turchia) – Istanbul  (Turchia) – Trieste.

Ovvero attraversare il Canale di Corinto, navigare nell’Egeo, oltrepassare lo stretto dei Dardanelli e navigare nel Mar di Marmara, imboccare lo stretto del Bosforo e attraversare la città di Istanbul per sfociare nel Mar Nero in direzione del primo porto oltre la Cortina di ferro: appunto Varna, in Bulgaria.

Ciò significava anche navigare in buona parte in incognito fino all’attracco liberatorio nel porto turco di Samsun. Scendere a terra come clandestino con la compiacenza degli spedizionieri locali omaggiati con dollari e sigarette per poi rientrare in Italia dopo una sosta di tre giorni ad Istanbul.

Tutto questo su di una nave turca, la Inibah di 3.000 tonnellate, con il capitano, mio padre direttore di macchina e unici italiani. Il resto dell’equipaggio era principalmente composto da turchi.

Cosa ci faceva mio padre sulla Inibah? Insieme al capitano erano stati mandati dalla Compagnia Ignazio Messina che di fatto era la noleggiatrice di quel piccolo cargo battente bandiera turca.

Allora i rapporti commerciali tra l’Unione Sovietica e la Turchia erano “normali” e quel cargo, con quella bandiera, era perciò accettato senza problemi dalle allora autorità sovietiche.

Non nascondo che salire a bordo di una nave con la bandiera della mezzaluna a poppa mi fece un certo effetto.

Hoş geldin (cioè benvenuto), mi disse un marinaio mentre mi accingevo a salire sulla nave, seguito subito dopo dal “Gemiye hoşgeldiniz (benvenuto a bordo) da parte di un ufficiale. Dovevo abituarmi a quella lingua dalla difficile pronuncia.

Navigammo lungo la costa dalmata e, in prossimità di quella albanese, ci distanziammo notevolmente per non incorrere in spiacevoli incontri con le motovedette di quel paese.

Arrivammo nella baia di fronte al Canale di Corinto a notte inoltrata e rimanemmo alla fonda fino all’alba in attesa del turno per il passaggio. Un convoglio alla volta, a senso unico. Il canale era così profondo, alto, impressionante. E poi così storico, così significativo! Davvero emozionante passarci in mezzo.

Leggere che per primo pensò di realizzarlo un tale Periandro, inviato lì da Nerone con seimila schiavi, e che i greci ci sono riusciti a concludere l’opera solo nel 1893 mi lasciò parecchio perplesso. Anche perchè appresi che il progetto di Nerone non era mai stato modificato e che quindi l’opera finita non poteva corrispondere alle esigenze della navigazione moderna. Allora ed ancora oggi è lungo poco più di  6 km, largo 21 metri, con una profondità di 8 metri: in pratica passano solo navi di stazza medio-piccola (circa 10.000 t). Le pareti raggiungono invece circa 80 metri la massima altezza.

Il porto del Pireo fu una sosta breve. Scaricammo merci varie e liberammo le stive pronte per i carichi futuri. Non ci fu il tempo per nessuna visita, ma solo per qualche souvenir.

Navigammo quindi nell’Egeo settentrionale passando nello stretto di Kafirea e raggiungendo quello dei Dardanelli.

A bordo vivevo immerso nella cultura marinara turca fatta di riti quotidiani, comprese le preghiere del mattino e della sera. Ricordo le cantilene in quella lingua impossibile, gli sguardi enigmatici, misteriosi, accompagnati da continui “salamelecchi” miranti a guadagnarsi la mia compiacenza. E il continuo monito di mio padre: ”Non ti fidare, non ti fidare…”.

Il Mar di Marmara già allora molto trafficato e pattugliato dalle navi militari turche per controllare il via vai della marineria sovietica, compresa quella da guerra.

Istanbul l’attraversammo di notte. Chimerica, impensata nella sua realtà sulle due sponde, fantastica, chiassosa,  con i suoni dei clacson che echeggiavano ancora di più nell’ora tarda.

Non dormii che poche ore: non volevo perdermi l’avvicinamento al porto bulgaro di Varna. Prima della partenza avevo raccolto notizie relative alla città, la sua storia legata al periodo dell’impero romano (era porto imperiale della Tracia) e Repubblica Socialista di Bulgaria. Rammento, al momento dell’attracco alla banchina, la salita a bordo degli agenti della KDS, la polizia segreta del partito. Lo confesso: ero intimorito più che mai.

Tuttavia si dimostrarono duttili nell’applicazione delle “regole”, permettendomi di scendere visitare, pur seguendo un itinerario ben preciso, una parte della città. In particolare il museo dove è conservato “L’Oro di Varna”, artigianato aureo bizantino di straordinaria bellezza.

Nelle vie del centro di questa si respirava però quell’atmosfera di sospetto che mi accompagnò anche nei successivi porti, tutti, direttamente o indirettamente, sotto il controllo dell’Unione Sovietica. Indimenticabile la gigantografia, nella piazza centrale di Varna, del Segretario del Partito Comunista Zivkov e di quello sovietico Kruscev, sorridenti con lo sguardo rivolto a sinistra, nel vuoto, ad indicare il “roseo futuro del mondo socialista”.

Caricammo un po’ di merci dirette in Turchia e poi, mollati gli ormeggi con il beneplacito delle autorità, via verso la successiva meta: Costanza, in Romania.

Costanza  fu una sosta breve dove ottenni, accompagnato dallo spedizioniere del luogo, il “compagno Nicolae”, la possibilità di visitare, nei pressi del porto, il Museo Nazionale di Storia e Archeologia con i suoi rarissimi mosaici dell’epoca romana. Seconda tappa, raggiunta a bordo di una Pobeda anni  ’50 nella versione station-wagon, fu la Moschea Mahmudiye, con un minareto altissimo. Mi fu permesso di entrare perché portavo il “tarbush” (fez) prestatomi da un marinaio di bordo. Quel copricapo mi fece passare come musulmano e salii così in cima al minareto, dove ammirai a perdita d’occhio tutta Costanza.

Inevitabile il saluto all’immagine del Segretario del Partito di allora, tale Georghiu-Dej, anche lui in compagnia di Nikita Kruscev.

La navigazione successiva, non lontana dalla costa, fu parecchio interessante. La foce del grande Danubio prima e quella del Dnstr dopo annunciavano la Moldavia, allora terra romena, e l’Ucraina, allora parte integrante dell’Urss. Destinazione, il porto di Odessa.

Non fu facile ottenere il permesso di scendere a terra. L’ottenni l’ultimo giorno dei tre di permanenza e la visita fu veloce. Nonostante la presenza sovietica ad ogni angolo, in città si continuava a respirare quell’aria austro-ungarica regalata dalla presenza di un’architettura che il regime non era riuscito a cambiare. E la scalinata Potemkin, costruita dall’italiano Francesco Boffo a testimonianza della presenza italica da queste parti.

E poi Sebastopoli: qui volevo arrivare, qui ero arrivato. Feci un giro nella cittò vecchia, assai ricca di fascino. Non mi fu permesso inmvece di arrivare a Yalta, con mio gran cruccio.

Il porto successivo, Novorossijsk, segnò una tappa di poche ore. Come si direbbe oggi un mordi e fuggi. Il tempo di un carico veloce di merci varie e via verso Batumi, in Georgia.

Quella fu una vera e propria scoperta. Vuoi perché, nel preparare il viaggio, non ero riuscito a trovare tracce storiche di questa città, vuoi per quell’aria meno opprimente che subito vi respirai. Già dall’arrivo a bordo dei sorridenti doganieri avevo colto una gran differenza. Fu un luogo che trovai molto “europeo” e abitato da gente accogliente, nonostante gli onnipresenti i simboli. Peccato che la permanenza a Batumi fu breve.

Fu il richiamo dei muezzin a ricordarmi, era era ormai sera, che ero arrivato a Samsun, il porto turco più importante del Mar Nero. Grande festa a bordo e avvicendamento di buona parte dell’equipaggio. Della città ricordo il ritmo frenetico giornaliero, i suoni dei clacson assordanti e finalmente un caffè alla turca degustato in un dei locali del centro. Benvenuto in Turchia, dove il mistero si unisce alle spezie dei mercatini e alle cianfrusaglie dei bazaar.

La Inibah riprese il mare dopo tre giorni diretta ad Istanbul, dove toccai la vita cosmopolita della città.

Ma la merce caricata nei porti dell’oltre cortina non la scarichiamo?“, fu la domanda che posi a mio padre.

La risposta fu secca: “Shhh…silenzio!”.

Senza dover indagare troppo, capii che il carico aveva cambiato destinazione. Ora, magicamente, era indirizzato verso il porto di Trieste.

Queste sono cose turche”, commentò il babbo.

Istanbul era già allora una megalopoli di oltre 10 milioni di abitanti. Un crogiuolo architettonico dominato da rumori, voci, lingue diverse, dialetti e un traffico frenetico. Visitai tutto, ovviamente: il Corno d’Oro, Piazza Taksim, Santa Sofia, la Moschea Blu, la Cattedrale di San Giorgio, la Cittadella di Galata con il Gran Bazaar. Ed infine la Stazione ferroviaria di Sirkeci, per ammirare il famoso Orient Express. Una città che non dorme mai.

Il ritorno verso Trieste, passando nuovamente dal canale di Corinto, mi regalò una traversata tranquilla: l’Egeo e l’Adriatico con le loro acque placide in perfetta armonia.

La Inibah attraccò nel porto vecchio all’alba e subito iniziarono le operazioni di sbarco delle merci. Prima di mezzogiorno ci fu il rituale dell’avvicendamento. Nuovo comandante e nuovo direttore di macchina di nazionalità italiana ad indicare che il nolo continuava e che la Inibah, da lì a poco, sarebbe stata pronta per una nuova avventura in quelle acque dove le merci cambiavano destinazione con la compiacenza dei turchi.