“Noi no“, disse mia nonna spiegandomi che a mezzanotte qualcuno avrebbe aperto la finestra buttando di tutto. Successe davvero, io rimasi a bocca aperta. Allora mio nonno mi dette una vecchia lampadina. E io la feci cadere, ma piano. “Pof!”, fece toccando l’asfalto.
Qual è il più remoto San Silvestro che ricordate?
Quando si comincia ad avere una certa età non è facile rammentare.
Io ne rammento due, ma il più antico è questo.
Ero a Chiusdino, paesino (quello in alto sullo sfondo del Mulino Bianco) della provincia di Siena dove mio nonno era medico e dove ho trascorso periodi indimenticabili della mia infanzia. Sarà stato il 31 dicembre del 1966 o del 1967. La mezzanotte si passava ovviamente in casa. Io, loro e la domestica, in attesa del mio momento preferito, il “tonfo“, cioè lo stappamento dello spumante, l’unico che davvero mi interessava.
Eppure neanche in quell’occasione la mia paziente nonna perse l’occasione per spiegarmi cose nuove.
Mi disse che allo scoccare delle 24 tutti intorno avrebbero urlato e cantato e stappato bottiglie e fatto esplodere qualcosa. Dopodichè (“ma noi, no“, specificò sollevando l’indice) avrebbero spalancato le finestre e buttato di sotto qualcosa di vecchio, a simboleggiare lo sbarazzarsi di un anno che se ne andava e l’aprirsi di un altro.
Divorato dalla curiosità, aspettai l’ora che mi separava da quel momento con ancora più impazienza del “tonfo”. Non avrei mai pensato però che le cose andassero come andarono.
Eravamo al quarto piano di un alto caseggiato che si affacciava verso sud, guardando l’abbazia di San Galgano e l’eremo di Montesiepi. Di fronte, la massa scura del Monte Quoio, sulla cui ubicazione, altezza e lo strano nome avevo a lungo investigato spulciando mappe e cartine, chiedendomi tra l’altro perchè, essendo nulla più di un pur alto colle, fosse appunto chiamato monte. Dalle finestre, che accanto a quelle delle case vicine sembravano una fila interminabile di piccoli oblò aperti sul nulla del buio, la veduta era immensa, a picco, sulla campagna e sulla strada per Ciciano dove, di giorno, vedevo passare contadini, barrocci trainati dai muli e vecchie nerovestite diretti chissà dove.
Così arrivò la mezzanotte, mio nonno stappò l’Asti d’ordinanza e lo versò nelle ampie coppe, come si usava allora. Brindammo, una cosa semplice, con qualche dolcetto e l’idea di andare a letto subito dopo.
Ma io ero vigilissimo e, mentre ancora avevamo i bicchieri in mano, sentii il rumore delle finestre dei vicini aprirsi. Mi buttai alla nostra, anche se appena arrivavo al davanzale. Ci piazzai uno sgabello sotto e mi sporsi al massimo, tenuto per il maglione dall’impauritissima nonna.
Fu allora che, insensibile alla brezza gelida dei seicento metri, vidi l’incredibile o ciò che, almeno, mi parve tale.
Tra grida di giubilo, da decine di finestre illuminate pioveva in strada di tutto: piatti, bicchieri, stoviglie, panieri, sporte, vecchi trabiccoli, perfino qualche mobile. Roba modesta, di un borgo defilato che i fermenti del consumismo li stava percependo, ma non aveva ancora messi in pratica.
Rimasi stupefatto.
Mi guardai intorno e incrociai gli occhi di mio nonno, che immediatamente capì il mio messaggio: “Perchè noi no?“.
Non era quello il momento di dare altre spiegazioni.
Lui svitò svelto dal lume una lampadina che si era fulminata e me la porse. “Dai, butta“, mi disse.
Io mi sporsi più che potevo, rassicurato dalla presa d’acciaio di mia nonna. Stavo per lanciare, ma mi ricordai del “tonfo“. Che gusto c’è a buttare di sotto qualcosa se poi non senti il rumore di quando, toccando terra, va in mille pezzi?
Allora presi fiato, prima guardai in basso e poi lasciai andare la lampadina perpendicolare al muro, senza tirarla lontano, restando per secondi che sembrarono interminabili con l’orecchio teso ad aspettare il botto. Quasi subito il bulbo opaco sparì alla via vista, ma lo osservai con gli occhi della fantasia mentre cadeva a testa in giù, oltrepassava le finestre della signora Francesca del piano di sotto, poi quelle di suo figlio Fabrizio, che abitava al piano di sotto, e infine i massicci portoni dei fondi al pianterreno.
“Pof!“, fece invece all’improvviso la lampadina sbriciolandosi sull’asfalto.
Un pof sordo, quasi impercettibile, simile a quello di Panatta nel celebre spot. Ma io lo udii distintamente, riuscendo a captarlo alla perfezione tra i clangori del frastuono generale.
Quel suono mi è rimasto da allora impresso nella memoria, come una sorta di madeleine acustica.
E non nascondo che a volte, quando sono da solo e fuori da sguardi indiscreti, se mi capita tra le mani una vecchia lampadina non resisto alla tentazione di farla cadere dall’alto solo per il gusto di riascoltare quel pof.
In ricordo di quella sera, dei miei nonni, di quel mondo scomparso – forse non migliore, ma così diverso – e di tutte le notti di San Silvestro che ci sono state nel frattempo.
Compresa la prossima.
Buon anno.