Il 3 febbraio la legge 69 istitutiva dell’Ordine dei Giornalisti compie sessant’anni. Portati malissimo. Quindi c’è poco da festeggiare, molto da preoccuparsi e più ancora da rifondare. Senza però perdere di vista la luna a favore del solito dito.

 

Per un qualunque sessantenne con la salute che già scricchiola, l’idea di dover ancora aspettare per andare in pensione è parecchio preoccupante, perchè c’è il rischio di non arrivarci mai.

E’ il caso dell’Ordine dei Giornalisti. O meglio della sua legge istitutiva, la 69 del 3 febbraio del 1963, che sta appunto per spegnere le fatidiche sessanta candeline.

L’OdG infatti non solo appare molto più vecchio della sua età anagrafica, ma ha gli acciacchi di un centenario , perché le norme che lo regolano sono decrepite: nella sostanza mai aggiornate né adeguate da allora, nonostante la professione, in questo lunghissimo arco di tempo, sia mostruosamente mutata. E non somigli quasi più in nulla, se se ne eccettuano i principi di base (dei quali troppe volte si finge di dimenticarsi per giustificare scorciatoie che col giornalismo non hanno nulla a che fare), a quella del secondo dopoguerra, basata sui contratti a tempo indeterminato, la macchina da scrivere, la carta carbone, la posta col francobollo, i telefoni col filo, i quotidiani cartacei, un po’ di rotocalchi e un solo canale televisivo.

Nel 2023 il giornalismo scolpito dalla mitica l.69/63 assomiglia alla metaforica statua di Glauco, giacente da troppo tempo in fondo al mare e talmente incrostata di alghe, cozze, patelle, coralli e posidonie da risultare irriconoscibile.

La nostra ormai è una professione opaca. Non a caso viviamo in un’epoca in cui tutti sono, o si ritengono, o si atteggiano, o ambiscono, o pretendono o si assimilano a caballeros, ops, volevo dire ai giornalisti: un mestiere del quale si è perduta la bussola e la fisionomia.

Inutile andare a ritroso nei decenni a rivangare maliziosamente colpe e responsabilità, che sono collettive e ben distribuite: la legge professionale è non a caso sopravvissuta a decine di governi, a molteplici progetti di legge, a referendum, a campagne abolizioniste, ai mefitici correntismi sindacali, ad autoriforme più o meno maldestre e all’evidenza della sua raggiunta inadeguatezza.

Sembra insomma un moloch inossidabile ed è invece un rottame quasi inutile a difesa di un mestiere nei fatti liberalizzato da tempo e quindi fuori controllo, con buona pace del ruolo centrale, tanto spesso invocato, al quale, in un sistema democratico, dovrebbe adempiere la cosiddetta informazione, vittima designata della morsa dei suoi più stretti parenti-serpenti: il marketing e la propaganda. Con i quali essa vive ormai una relazione così promiscua da aver appannato ogni differenza tra l’una e gli altri.

Forse, però, qualcosa si muove? O almeno sembra, tra spiraglini governativi, spiraglietti ordinistici, ammuine di corrente e sintomi di apparati?

Non mi ci addentro. Ma in dottrina l’ultima tendenza sembra essere quella di percorrere non la via della riforma della legge vigente (e quindi dell’Odg), ma di una legge ex novo con la creazione di altre entità, per ora non meglio individuate, cui attribuire le funzioni già ordinistiche.

Al di là delle trovate di ingegneria istituzionale che ho visto accompagnare questa proposta (alcune delle quali anche ben congegnate, lo ammetto), mi pare però che siamo di fronte all’ennesimo caso di dito scambiato per la luna: dove, come già scrissi qui, il dito sono gli strumenti e la luna è la salvaguardia dell’informazione. Che può essere articolata e disciplinata come si vuole, ma deve restare informazione: ossia terza, autorevole, indipendente, autonoma. Insomma la stessa descritta dalla vecchia 69/63, della quale si può buttare via tutto, tranne la visione.

Il resto sono solo tentativi di sdoganamento delle marchette e delle aree grigie circostanti.

Quindi ben vengano (sono indispensabili, direi!) norme che regolamentino le nuove forme di comunicazione e le nuove figure professionali che oggi sguazzano totalmente libere nel mare magnum della rete. Ben vengano pure regole che normino i settori e le occasioni nelle quali le diverse discipline si intersecano e di sovrappongono.

Ma i giornalisti restino solo e soltanto giornalisti e siano tenuti a fare rigorosamente il loro mestiere, senza confusione di ruoli e di responsabilità.

Il che implica il diritto/dovere di restare estranei ai condizionamenti esterni, presupposto di cui è anche l’indipendenza economica.

Speriamo che il legislatore si ricordi di questo dettaglio, quando farà la legge nuova o riformerà quella vecchia. Ribadendo che il nostro non è un hobby, ma un lavoro.