di LUCIANO PIGNATARO
Terra di Lavoro 2007, Galardi: se tre indizi danno una prova, tre assaggi danno certezze. E questo Aglianico e Piedirosso da annata calda e maturazione lenta ci offre un benchmark.
Ogni generazione ha il suo calciatore preferito e assolutizza i propri gusti sulla base del proprio vissuto estendendoli a chi è stato e a chi sarà. Con il vino italiano, con tutto il rispetto che dobbiamo a qualche etichetta dei decenni che hanno preceduto lo scandalo del metanolo, è possibile parlare in termini assoluti dal punto di vista cronologico, perché dopo il 1986 abbiamo vissuto una viticoltura completamente nuova attraverso la moda delle barrique e quella delle no-barrique, del vetro, del cemento, delle anfore, dei vini filtrati e non filtrati, dei lieviti selezionati e di quelli indigeni e tralasciano di entrare nelle mode dei sistemi di allevamento, della selezione dei cloni. Tirando le somme, possiamo fare una nostra Hall of Fame, di vini cioè che dovrebbero restare per sempre nell’immaginario collettivo.
Fare questa selezione per i rossi della Campania è sicuramente un po’ più facile, essendo questa una regione essenzialmente bianchista. Non sono pochi comunque i rossi di grande spessore, ma le specificità dell’Aglianico ha fatto da filtro facendone passare alla fine pochi. Tra questi non vi è dubbio che il Terra di Lavoro di Galardi, prima edizione 1994, è uno dei più grandi in assoluto, leggibile anche fuori dalla regione, forte di una complessità straordinaria dal punto di vista olfattivo e gustativo. Ottenuto da uve Aglianico e Piedirosso coltivate alle falde del vulcano spento di Roccamonfina (dove nasce la Ferrarelle), parte sempre un po’ lento per evolversi in maniera spettacolare dopo quattro, cinque anni.
Di questa etichetta, però, mai avremmo dato importanza alla 2007, abbiamo anche riletto gli appunti di degustazione scritti nel corso di una verticale fatta con Riccardo Cotarella, l’enologo della piccola azienda di Sessa Aurunca che oggi non supera le 30mila bottiglie da dieci ettari di terreno vitato: non era l’annata che aveva brillato di più nel 2010. Riprovata nella seconda verticale nel 2018 già presentava un carattere diverso e più convincente: l’impressione iniziale è quello di tuffare il naso in un cesto di frutta e spezie dolci. Grafite in sottofondo. Non tarda la componente balsamica. Al gusto è diretto e schietto nel mostrarsi più giovane dell’età che ha. Un “trentenne palestrato” e ruggente. Al palato è rampante anche nel tannino. Spiccata sapidità dalla verve fresca e percettibile. Particolare il ritorno di zolfo anche al gusto. Buona la componente acido-sapida. Il fin di bocca richiama in modo netto gli aromi della macchia mediterranea.
La 2007 è una annata generalmente amata dagli enologi per le sue caratteristiche tranquille: certamente annata calda che ha consentito una regolare maturazione delle uve grazie alle piogge giuste al momento giusto. Calda perché per certi versi richiamava la 2003, prima vera annata torrida e tropicale di questo millennio, ma appunto, più regolare al punto di consegnare nelle cantine frutta fresca, matura e sana.
La riproviamo nelle migliori condizioni possibili: con un gruppo di cari amici in una giornata di sole adatta a festeggiare il mio onomastico in quel di Sant’Agata sui Due Golfi, con la cucina sincera e semplice dello Stuzzichino. Dalla bella cantina si decidere di spendere questo rosso 2007 su un pollo vegetariano, cresciuto sgambettando nell’Orto Ghezzi seguito dalla famiglia Di Gregorio e ne godiamo in pieno quello che secondo noi è lo zenit del vino: profumo di frutta matura con rimandi di sottobosco, note lievi di cenere e di fumé, grandissima freschezza al palato, allungo meraviglioso nel finale che resta nella memoria papillosa per un tempo lunghissimo che lascia spazio alla voglia di ripetere subito il sorso.
Un grandissimo vino di valore assoluto, straordinario, in uno spettacolare rapporto fra qualità e prezzo. Un consiglio a tutti gli appassionati: fate incetta di queste bottiglie come se non ci fosse un domani.
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