Mentre sobbolle, tra incomprensione generale e confusione concettuale, la questione della miniautoriforma da poco varata dall’OdG, nessuno sembra voler cogliere l’unica vera scriminante: può, anzi deve diventare giornalista solo chi il mestiere lo fa. Gli altri, no.

 

La cosa che più sconcerta, parlando della professione giornalistica e delle sue più o meno vagheggiate nonché indifferibili riforme, è la caduta dal pero della stragrande maggioranza dei giornalisti. Di coloro cioè che ne dovrebbero essere i massimi interessati.

Se si eccettua infatti una piccola percentuale, per attitudine personale o per ruolo svolto (di norma, colleghi coinvolti a livello ordinistico o sindacale), di cultori della materia, i più sottovalutano la questione, se non la ignorano (anche nel senso letterale di non conoscerne l’esistenza) o addirittura non ne comprendono la portata.

Il che, anche mettendo da parte il paradosso, rende bene l’idea della deriva in preda alla quale è la categoria e dell’inconsapevolezza con cui decine di migliaia di operatori dell’informazione si lasciano trasportare verso il baratro dalla corrente dell’inerzia.

Da settimane è in corso infatti un surreale dibattito sulla cosiddetta “autoriforma” dell’Ordine varata ai primi di novembre dal Consiglio Nazionale (vedi qui e qui). La quale, provocatoriamente (ossia al primario scopo, almeno dicono, di richiamare sul punto l’attenzione della politica e quindi del legittimo legislatore, cui spetterebbe riformare davvero la decrepita legge 69 del 1963), apre le porte del praticantato – ed ergo dell’esame da professionista, perfino saltando lo stadio del pubblicismo – a figure che, come i barbari al declino dell’impero, da anni premono ai confini del mestiere ma che, finora, col giornalismo erano ritenuti aver nulla a che fare: videomaker, produttori di podcast, blogger, media manager e perfino operatori del Metaverso, uffici stampa fatti da non giornalisti, social media manager, nuove professioni digitali.

Una varia umanità tutta racchiusa nella dispersiva espressione “colleghi che non lavorano per una testata giornalistica”.

Ora (a parte l’assurdo di chiamare “colleghi” persone che non lo sono e devono ancora dimostrare di poterlo essere), a me, incrollabilmente, in ciò pare ci sia solo un accanimento sospetto nell’osservare e nel far osservare il dito anziché la luna.

Mi sembra cioè che, a scopi probabilmente strumentali e di distrazione di massa, di tutto si parli tranne che del semplice, vero cuore della questione.

Ovvero il seguente: essendo per definizione giornalista chi – e solo chi – produce informazione, ossia notizie, ne consegue che deve poter accedere alla professione giornalistica, e alla relativa qualifica, solo chi effettivamente svolge tale attività. Punto.

Sembra banale, ma non lo è affatto. Perché vogliono farci credere che la faccenda sia più sottile, quasi di lana caprina, di “aggiornamento”, di “adeguamento” alle nuove e complesse realtà.

Mica vero.

La verità, invece, è che come il giornalista svolge il suo lavoro è assolutamente secondario. Ha un contratto, non lo ha? Scrive articoli con la penna, manda segnali di fumo come gli indiani, verga notizie sui muri col carboncino? Crea stringhe e algoritmi? Lavora sul cartaceo anziché sull’on line? Ha un blog? Trasmette dallo spazio interstellare?

Non fa alcuna differenza, se appunto egli opera da giornalista. Ossia se esercita la professione nel rispetto delle norme fondamentali, deontologiche e non, che la regolano: rispetto della verità e della terzietà, correttezza, controllo delle fonti e, massime, assunzione della responsabilità morale, civile, penale e professionale per le cose che scrive.

Quindi il quesito da porsi è: l’attività del candidato, qualunque sia il modo in cui egli la esercita, ha natura giornalistica? Se la risposta è sì, si allarghi pure la nomenclatura degli strumenti ammessi per esercitarla. Se la risposta è no, vuol dire che il soggetto in questione non fa, e quindi non può diventare, il giornalista.

Questa è la grande discriminante. Una questione semplicissima, i cui paletti sono chiari.

Creare cortine di fumo per scandire finte tipologie e distinguo artificiosi serve solo a intorbidare le acque e a mantenere lo status quo, compresa l’ignoranza diffusa di una categoria smarrita e ormai annacquata, che tale si vuole che rimanga. E in cui si finge che tutti possano essere tutto per poter poi giustificare tutto e quindi rendere accettabile tutto.

Praticamente il contrario della missione del giornalismo.