E’ un crescendo pulp: l’informazione e chi dovrebbe produrla non esistono più, ma si fa di tutto per simulare – eufemisticamente – il contrario.

 

Ho appena trascorso giorni istruttivi, verificando quanto sia non solo vera, ma ormai pressochè trasversalmente condivisa anche tra i giornalisti, o buona parte di loro, l’applicazione di un principio in teoria aberrante nel nostro mestiere: quello per cui non si può essere al tempo stesso arbitri e giocatori.

Altro che lotta ai conflitti di interesse, indipendenza (tralascio la pietosa formula dei “cani da guardia“), verifica delle fonti eccetera con cui, a parole, noi della stampa ci gonfiamo spesso il petto.

Infatti, nell’ordine:

1) Ho trascorso una buona mezz’ora con un collega, che peraltro è persona intelligente, il quale tentava di convincermi della solita solfa: “la nostra professione è cambiata” e “noi giornalisti” non siamo più artefici di informazione, ma di “contenuti“. Ciò pertanto, secondo lui, giustifica tanto l’abdicazione al nostro fondamentale ruolo professionale, ossia il racconto dei fatti, quanto la parificazione tra notizie e propaganda, nonchè la pubblicazione a firma giornalistica di scritti più o meno “sponsorizzati”.

Al mio trasecolare il collega ha risposto che mi “dovevo svegliare” (ma io purtroppo sono sveglissimo:      casomai dovrei rassegnarmi alla deriva, sebbene ancora non ci riesca) e che non ci restavano alternative, perchè “ormai nessuno paga più i nostri articoli e quindi dobbiamo campare in altro modo“.

Ho risposto che in teoria non avevo nulla da eccepire.

A condizione però di abbinare all'”altro modo” il nome vero del mestiere che andiamo a fare abbandonando il precedente. Da giornalisti a “autori“, per esempio. C’è qualcosa di male nel cambiare professione, se quella di prima non va più bene o non ti dà da vivere? Direi di no. E a chiamare la nuova col suo nome, invece di camuffarla da qualcosa di diverso? Nemmeno: “Si prende atto che un’attività non rende e si passa ad altro“, gli ho detto, come accade in qualunque settore. Non è che, se un pilota di jet viene licenziato e passa a fare il tassista, ho aggiunto, possa pretendere di continuare a definirsi pilota di jet: si autodefinisca per ciò che è adesso, tassista, lavoro rispettabilissimo, e il problema non c’è più. E ancora: “Se prima vendevo gioielli e mi definivo gioielliere, ora che vendo mutande non posso più dirmi gioielliere“, ho provato ancora a esemplificare.

La risposta è stata surreale: “Ma io voglio continuare a chiamarmi giornalista“.

L’ho salutato assai perplesso.

2) Ho poi partecipato a un evento in cui non solo un ente pubblico, oltre ad avere un comune ufficio stampa, dichiara di farsi un proprio giornale, con tanto di giornalisti dentro, al solo scopo di pubblicare propaganda di se stesso mascherata da informazione e autorecensioni compiacenti delle proprie attività. Sarebbe già abbastanza grottesco, ma non basta: l’ente consente pure ai suoi stessi giornalisti, i quali ovviamente trovano la cosa deontologicamente del tutto normale, di scrivere per terze testate (che li pagano) articoli incensatori sull’attività dell’ente che li stipendia e che addirittura permette loro di organizzare iniziative (ovviamente anch’esse a pagamento), fare consulenze e cercare sponsor. In pratica un cortocircuito che mette sì in campo molte professionalità, nelle quali però, di giornalismo, non c’è nulla. Il tutto sotto gli occhi silenziosi di molti colleghi, forse desiderosi di occupare quei posti o di usufruirne, e lo sguardo, spero distratto, ma temo ormai complice, in prospettiva di riforme accomodanti, dell’Ordine.

3) Ho fatto quindi una lunga chiacchierata con un altro collega, che mi ha riferito la sua recente vicenda personale: un giornale committente gli ha chiesto di “organizzare” il servizio che gli era stato commissionato facendosi però carico (gratis, si capisce) non solo del relativo lavoro di relazioni e logistica che nel mondo normale spetterebbe alle segreterie di redazione, ma pure dello “scambio merce” tra il pubblicando articolo e l’acquisto di pagine pubblicitarie, per non dire del reperimento di varie gratuità. Più che un servizio, chiedevano insomma un servizietto. Lui non ha accettato, ma chi lo sostituisse si è trovato subito.

4) Perfino i servizietti da bordello professionale, del resto, risultano ormai sdoganati. Nella brodaglia indistinta della “comunicazione” sguazzano infatti senza freni, ed anzi accolte con la generale acquiescenza che si riconosce alla normalità, anche le figure di chi, senza alcuna qualifica, si aggira nell’ambiente al solo scopo di fare le scarpe a qualcuno pari suo o di trovare occasioni per far pubblicare, su carta o nel marasma digitale, “contenuti”. Cosa che va inspiegabilmente bene a tutti, visto che nessuno protesta o eccepisce: recensori, recensiti, direttori, odg, giornalisti, lettori.

5) La cosa più sconcertante di tutte è stata comunque proprio l’ultima: sollecitato da quanto sopra, ho effettuato una sorta di minisondaggio. E ho scoperto che pure per la gente comune – quella stessa che il giornalismo dovrebbe in teoria tutelare, informandola, e che al Bar Sport inveisce contro il governo ladro e la stampa venduta – tutto ciò è non solo normale, ma in qualche modo apprezzabile. La sindrome di Stoccolma della marchetta.

La morte della professione genera mostri. E non credo che lIA potrà salvarci.