Giorni fa a Firenze il presidente dell’Odg è tornato sulla questione dei nuovi criteri per l’accesso al praticantato, chiarendo la ratio di un provvedimento che però, secondo noi, rimane contraddittorio.

 

Devo essere sincero: le precisazioni sulla nuova interpretazione dell’art. 34 della legge 69/63 – varata dal Cnog ed entrata in vigore il primo aprile – esposte dal presidente dell’Odg, Carlo Bartoli, in occasione dell’assemblea dell’Ordine della Toscana del 31 marzo scorso, mi hanno in parte sollevato rispetto ai molti dubbi che nutrivo (vedi qui).

Ma non mi hanno convinto, sebbene sembrino aver considerevolmente ristretto il campo di applicazione del singolare provvedimento, almeno rispetto alle infelici enunciazioni iniziali. Scompaiono ad esempio gli inquietanti riferimenti a non meglio individuati operatori dei “social media” e delle “nuove tecnologie“.

Così il sito dell’Odg (qui) sintetizza il discorso fiorentino di Bartoli:

La professione giornalistica è completamente cambiata, le modalità, i luoghi e i linguaggi sono completamente cambiati, e quindi occorre rimettere la legge al passo con i tempi: se questo non si fa, si rischia di morire per asfissia. Occorre precisare che non è una riforma, ma è un provvedimento tampone, perché la riforma la deve fare il Parlamento e anzi, noi spingiamo da anni, da decenni, affinché lo faccia. Dobbiamo far entrare con attenzione, con gradualità, con discernimento – ha affermato – coloro che fanno giornalismo ma che, sulla base della legge attuale, non possono diventare giornalisti. Chi lavora in un ufficio stampa; chi fa il videomaker magari in Ucraina o nelle piazze italiane e non ha un contratto, o lavora per contractor che hanno sede all’estero; per i fotoreporter che lavorano con le grandi testate internazionali, per chi lavora nelle grandi trasmissioni televisive che non sono testate, e tutte le maggiori non lo sono. Questi oggi non hanno diritto di diventare giornalisti: lo diventano facendo ricorso, o facendo ricorso alla magistratura. Mi pare che ci si debba rimettere al passo con i tempi”.

Su una cosa il presidente ha ragione al 100% (ma già lo sapevamo): “Occorre rimettere la legge al passo con i tempi”. Per farlo occorre però un intervento legislativo che spetta al Parlamento. E infatti Bartoli parla dell’interpretazione dell’art. 34 come di un “provvedimento tampone“.

Ma, mi chiedo, per tamponare che?

Se affermo che un videomaker, un fotoreporter, un autore tv, o uno che fa l’ufficio stampa per un privato sono già di per sè giornalisti e apro loro la porta della professione, inauguro un pericoloso percorso inverso rispetto a quello naturale perchè, formalmente parlando e non solo, giornalisti non si nasce, si diventa. Prima dimostrando coi fatti, ossia con gli articoli scritti per un giornale e pagati da un editore, di saper svolgere la professione nei modi stabiliti dalla legge 69/63 e solo poi, in virtù dell’abilitazione e del titolo conquistati, esercitandola nel rispetto delle regole professionali.

Lasciamo da parte per un attimo, oggi, la vexata quaestio Odg sì e Odg no.

Lasciar affermare il principio che ci sono soggetti che “hanno il diritto” di diventare giornalisti (tutti già lo hanno!) ma che “non possono”, se non in virtù di una forzata interpretazione della legge e di una forma parallela di praticantato, mi pare ingiusto e contraddittorio. Se non possono, è solo perchè non svolgono un’attività giuridicamente definibile giornalismo. Se ritengono di svolgerla, seguano il procedimento ordinario e ottengano la qualifica. E’ semplice.

Se invece pensano che “giornalista è chi giornalista fa” e che l’ordinamento della professione sia una sovrastruttura inutile, non si capisce perchè poi insistano tanto per accedervi e pure facendo ricorsi, visto che per svolgere “di fatto” il loro mestiere non hanno in realtà alcun bisogno del famoso tesserino.

Insomma, mi pare ci sia una grande ipocrisia generale e un grande bisogno di regole certe.