“Mentre al pesce, con man cruda ed avara, va tessendo il pescator frodi e periglio / Amor, ascoso in un vezzoso ciglio / uguali insidie al pescator prepara”.

 

In una deliziosa stampa settecentesca del senese Fabio Berardi è ritratta una scenetta moralistica assai  istruttiva anche sui tempi moderni, così didascalizzata: “Mentre al pesce, con man cruda ed avara, va tessendo il pescator frodi e periglio / Amor, ascoso in un vezzoso ciglio / uguali insidie al pescatori prepara“.

Il senso è che il pescatore, il quale con una maliziosa lenza attenta al povero pesce, allo stesso modo ingenuamente abbocca all’amo tesogli da un’ammiccante pastorella che porta il gregge ad abbeverarsi al fiume.

Sembra la metafora della prassi, dilagata e legittimata dall’accettazione inconsapevole del popolo bue, in base a cui chi ha qualcosa da vendere non si limita più a farne normale pubblicità, ad allestire vetrine o a inventarsi siti e pagine fb, ma fonda una propria “rivista”, oppure una guida, o una una newsletter camuffandole da fonte di informazione indipendente. Su cui poi recensisce – positivamente, certo – la merce sua.

Nella sua voluta opacità il trucco è assai sottile: mescolando le autorecensioni compiacenti con recensioni d’altro (più o meno veritiere e comunque sempre orientate), il venditore intorbida le acque inducendo il lettore a credere che il bollettino abbia una sua oggettività, credibilità, ruolo, terzietà. E quindi, pure, utilità. Così l’utente, proprio come il pescatore della stampa settecentesca, se la beve e compra convinto della bontà dell’affare.

Se questo è il quadro – tanto per citare un’avvenente e arcinota igienista dentale, invero da un po’ scomparsa dalle scene – si può dire che ormai se ne vedono “di ogni“.

L’ultima è una popolare catena di ristoranti che si fa una sua “guida” e come tale la pubblicizza. Immaginate con quale indipendenza e indovinate raccomandando chi e perchè. Ma non mancano nemmeno le agenzie di pubbliche relazioni con testate (a volte perfino registrate) piene di articoli “giornalistici” dedicati ai propri committenti o a volte addirittura redatti dai committenti stessi o dai loro addetti stampa. E poi un’infinita casistica di mascherate simili in cui, in sostanza, si spacciano le pubblicità per notizie.

L’aspetto più strabiliante della faccenda resta in ogni caso sempre il medesimo: messo sull’avviso, anzichè ammoscarsi l’utente difende spesso a spada tratta chi lo sta palesemente prendendo per il naso.

Ma a pensarci bene, oltre al consumatore, anche il giornalismo o ciò che ne resta trova qui la sua sindrome di Stoccolma, altrimenti detta tafazzismo: nonostante il proliferare infatti, con buona pace dei presunti sacri principi, di finte testate, dei marchettifici e dei finti articoli scritti però da giornalisti veri (nel senso di iscritti all’albo), nessuno fiata.