Tra le categorie metaforicamente, ma neanche tanto, vittime del coronavirus ce n’è una più vittima delle altre. E numerosissima: il cosiddetto “popolo delle partite iva“, cioè dei lavoratori autonomi, i professionisti e i piccoli imprenditori.

Le ragioni della preannunciata strage sono dirette e indirette.

Le prime, ovvie: la crisi economica provocata dall’epidemia, col brusco, quando non verticale, crollo di commesse, committenze, incarichi, acquisti, consumi, prenotazioni, lavoro e fatturati metterà presto sul lastrico i soggetti economici fragili, ovvero l’80%, di un’economia già fragile, ovvero la nostra.

Le seconde sono meno ovvie ma anche più gravi.

In modo infatti solo in parte comprensibile, a colpi di decreto il governo e la politica si affannano a promettere e ad escogitare, sempre ammesso che ci riescano, paracadute a difesa di quelli, e solo quelli, che essi considerano “lavoratori”, cioè i dipendenti. Per costoro, mille e pure giuste agevolazioni: licenze d’ogni tipo, casse varie, norme salvastipendio (nessun taglio in casi di assenza da ufficio chiuso o ricovero), quarantene equiparate alla malattia, smart working eccetera.

E per il resto? Cioè per quelli senza ferie pagate, senza festivi, senza licenze nè orari, senza sindacato, senza ammortizzatori sociali e spesso senza una pensione non parodistica? Niente.

La segretaria dell’avvocato può stare a casa e riscuotere lo stipendio o comunque essere tutelata, l’avvocato no. Il cameriere sì, il ristoratore no. Il dipendente della piccola azienda sì, il titolare no.

Oltre che palesemente ingiusto, tutto questo mi pare suicida. Anche perchè frutto non credo di una volontaria discriminazione, ma proprio di cecità. Di incapacità di comprendere quali siano i pilastri dell’economia reale, che poi è la società.

Assisto disarmato, tra lo smarrito e lo sbalordito, a questa nuova azione autolesionistica che, attraverso il proprio governo, il nostro paese mette in atto. Coll’aggravante, sono certo, che i soccorsi si vareranno eccome, ma solo poi, cioè tardi, quando gli ammalati saranno (sempre metaforicamente, si spera almeno) ormai morti.

Un classico italiano che la categoria giornalistica autonoma guida con mesto orgoglio.