Nel giornalismo italiano è in atto da tempo uno strisciante fenomeno che provoca l’opacità dell’informazione e del ruolo del giornalista. La riforma dell’OdG dovrebbe innanzitutto mettere mano a questa pericolosa deriva.

 

Sono sempre stato convinto e a lungo ho strenuamente difeso l’idea che “giornalista fa chi giornalista è“. Ossia che, per fare i giornalisti, prima bisogna esserlo: essere in possesso, cioè, della qualifica professionale e della coscienza, consapevolezza del proprio ruolo, bagaglio professionale, culturale e deontologico indispensabili per esercitare questa delicata professione. Requisiti attestati, in verità sempre più un teoria, dal rilascio della qualifica medesima.

Naturalmente nessuno nasce imparato e quanto sopra lo si accresce e lo si arricchisce (o lo si perde: la revisione periodica dell’albo dovrebbe servire a questo) anche con il progredire della carriera e (purtroppo) il trascorrere del tempo. Ma le basi vanno possedute fin dall’inizio, cioè dal momento in cui si fa domanda di ammissione nella categoria. Per entrare nella quale, non a caso, si dice che bisogna dar prova dell’acquisita capacità professionale. Consistente non tanto nel “saper fare“, quanto nel saper come fare, perchè e con quali limiti.

Ebbene: da qualche tempo la mia certezza vacilla.

Non perchè abbia cambiato idea, o perchè, come molti a guisa di alibi amano dire, sia “cambiata la professione“, che invece secondo me è rimasta esattamente la stessa di sempre.

Il fatto è che sono cambiati i giornalisti, o meglio gli iscritti all’Ordine: siamo ormai infarciti di colleghi che, qualifica e tesserino a parte, il giornalista non l’hanno mai fatto, nessuno ha insegnato loro a farlo e continuano a non farlo. Quindi si chiamano giornalisti e, formalmente, ne hanno pieno diritto, ma non esercitano. Esercitano altro. A volte consapevolmente e a volte meno. Ma del resto, finchè il sistema glielo consente…

Intendiamoci, la colpa non è tutta loro e i motivi si sanno.

Ma facciamo attenzione a non confondere i due piani: crisi dell’editoria e crisi della professione sono due cose diverse. Collegate sì, ma indipendenti tra di loro.

Scrivevo giorni fa che da un lato un ordine professionale composto, sempre più in prevalenza, da chi la professione non la svolge, diventa un baraccone inutile e fuorviante che nulla controlla e nulla ha da controllare. Dall’altro, che è ridicolo insistere a chiamarsi giornalisti se si fa un altro mestiere: basterebbe, ad esempio, rinunciare alla patacca e cominciare a chiamarsi autori.

Intervenendo in video alla tappa senese per il 60° dell’Odg, durante il Festival del Giornalismo di Siena appena conclusosi, l’altroieri il sottosegretario Alberto Rabachini diceva che è necessario “creare un argine al fiume dell’informazione“, scrivendo bene le regole del gioco e rispettandole, per garantire al sistema la necessaria trasparenza.

Non so se si riferisse alle manovre in corso per un’auspicabile riforma della legge professionale, ma una cosa è certa: oltre agli argini dell’informazione, vanno parecchio innalzati quelli della professione. Non tanto in termini di accessibilità, che è senza dubbio da adeguare (senza cali di brache) al mondo di oggi, ma di mantenimento della stessa all’interno del suo alveo naturale: quello dove i giornalisti fanno informazione e per questo sono chiamati tali sulla base di norme precise, mentre chi fa altro va chiamato in altro modo e deve rispettare norme diverse dalle nostre.

Trasparenza, appunto.