di URANO CUPISTI
Nel 1989 arrivai a Kathmandu dopo un’avventurosa sosta a Dacca: mi curai poco di templi, palazzi e hippy e molto della gente e dell'”inveramento diverso, ma non discordante, degli archetipi dello spirito umano”.

 

Dopo tanto peregrinare riuscii ad atterrare a Kathmandu: il viaggio-avventura con la Biman, la compagnia di bandiera del Bangladesh, era per il momento terminato.

Il volo da Dacca mi ripagò delle tribolazioni sopportate, con l’Himalaya e la cima dell’Everest che sembrava quasi di poter toccare. L’aereo del resto stava volando ad una altezza di circa 10.000 metri e la montagna arriva a 8.849 metri. Una visione primeggiante, imperiale.

Al ritorno dal viaggio qualche amico mi chiese perché avessi scelto di andare proprio in un paese come il Nepal. La risposta era nel pensiero del leggendario esploratore e orientalista Giuseppe Tucci (il maestro di Fosco Maraini) che avevo letto nel suo “Nepal: alla scoperta del Regno dei Malla” (Casa del Libro Editore, 1989): «Qualcuno mi ha domandato che cosa interessa a noi del Nepal. Ed io rispondo: dove c’è un uomo, uno solo, lì siamo anche noi, dove c’è memoria di un passato lì troveremo la modulazione nuova delle stesse illusioni, l’inveramento diverso, ma non discordante, degli archetipi dello spirito umano”.

Il mio fu infatti un cammino alla scoperta delle zone contadine, lontano dai circuiti turistici, un tuffo nelle tradizioni e nella cultura locale. Un’esperienza che ha lasciato nel mio animo segni indelebili, rendendomi più ricco.

Potrei raccontare della vita a Kathmandu in quegli anni ormai lontani, tra i vicoli della città vecchia, oppure elencare gli edifici storici e i templi antichi. Lo stupa di Boudhanath, il complesso religioso Swayambhunath, la piazza Durbar pullulante di figli dei fiori e il Palazzo Reale. Di Pokhara, dove una turba di escursionisti equipaggiati di tutto punto erano pronti ad alimentare quel via-vai, chiamato trekking, sulle pendici dell’Annapurna. Del Parco Nazionale di Chitwan e dello Stupa di Patan. E poi continuare con il Tempio di Pashupatinath e le sue giornaliere cremazioni dei morti, o ancora narrare  della leggendaria “sacra mucca” e il latte versato.

E invece no, quelle erano solo cartoline.

Preferisco raccontare del rapporto con la gente, la loro gentilezza e cordialità.

Stavo percorrendo a piedi  la strada sterrata che porta da Kathmandu verso il monastero buddista di Kopan, dove ero atteso da uno dei compagni del viaggio aereo. Avevo calcolato male la percorrenza ed improvvisamente mi colse la notte. Un buio pesto, dove solo l’aiuto di una mini-torcia tascabile mi permise di non uscire dal sentiero. La mia salvezza furono alcune luci provenienti da una casa in lontananza che si rivelò essere, al mattino seguente, l’abitazione di una famiglia contadina. Luci non elettriche, bensì emesse da candele che emanavano odori burrosi.

In Nepal si parlano ben 123 lingue diverse, ma quella dei gesti è sicuramente la più efficace. E i miei risultarono proficui visto che riuscii ad avere ospitalità per la notte, un piatto di dal bhat (lenticchie e riso) con verdure al vapore, una ricca colazione al mattino a base di yogurt, uova e pane tipo azzimo a base di farina di riso. Ricordo perfettamente la complicità dei bambini, la loro curiosità su tutto quanto mostravo loro, la cadenza dei movimenti e quel dondolare il capo da destra verso sinistra e viceversa per dire “sì”. Non vollero nè rupie nè dollari, solo il mio ciao stampato nei loro sorrisi.

Un’altra volta decisi di tornare da Pokhara verso Katmandu con un bus locale. L’appuntamento era al terminal (si fa per dire), all’alba. Sistema di prenotazione: chi prima sale prima alloggia e prende il posto migliore. Partenza solo quando il bus è pieno. Gli orari sul tabellone, un optional. Gomme lisce da paura e via sulla Strada Reale, alquanto sconnessa, che costeggia prima il fiume discendente verso il Lago di Pokhara e poi, una volta arrivati sul passo più alto, quello che scende verso Katmandu. Solo 200 km in appena 11 ore. Fantastico.

Lungo la strada era una catena di camion in panne, chi cambiava le ruote, chi poneva sulla careggiata dei massi al posto del triangolo. Ogni 30 Km stop, perché il bas ka sanchaalak (l’autista) doveva riposare e tutti con una calma serafica scendevano posizionandosi lungo il limite della carreggiata, possibilmente all’ombra. Senza dimenticare le fermate obbligatorie nei villaggi. Ricordo quello di Bandipur, un paesino circa a metà strada fra Kathmandu e Pokhara. Lì, mentre i bambini regalavano fiori senza chiedere niente in cambio, le donne giravano con pesanti ceste piene di verdura sulla testa, per il mercato. E tanta musica che usciva da transistor sfoggiati come segno di raggiunta modernità. “Bas aa gaee hai” (“è arrivato l’autobus”) urlavano per attirare l’attenzione dei viaggiatori. Chi scendeva, chi saliva, bagagli legati sul tetto insieme a gabbie di conigli e galline, anch’essi destinati al mercato. All’arrivo qualcuno chiedeva all’autista di poter restare sul bus fino all’alba in cambio di qualche rupia.

Un giorno mi lasciai convincere a raggiungere un luogo descritto come privilegiato, a circa 2.500 metri d’altezza, dove era assicurata la vista dell’Everest all’alba.

Era una bufala per turisti, ovviamente, che tuttavia si trasformò in un’esperienza da ricordare. Arrivato al lodge con altri ospiti, si passò all’assegnazione delle camere. “A lei la deluxe”, mi dissero. Era senza chiave e il bagno consisteva in un buco per terra con accanto un secchio pieno d’acqua che, a scelta, potevi utilizzare per lavarti la faccia e/o tirare nel buco all’occorrenza.  Finì che non mi lavai affatto, non usai il buco, chiusi la porta con una sedia. E all’alba fui accolto da un nebbione impenetrabile e da un “sorry” perché l’Everest non si vedeva. In compenso potei ascoltare per due ore due ore i canti degli Hare Krishna.

La cosa meno emozionante di tutte, contro ogni aspettativa, fu il rientro a bordo dei soliti aerei della Biman: nessun problema e arrivo a Fiumicino addirittura in orario. Mancavano all’appello un po’ dei frikkettoni incontrati all’andata, ma questo era ampiamente previsto.