Ci sono due modi per giocare a questo mestiere: il primo è simulare, il secondo è addentrarsi nella catena di montaggio del giornalistificio. Dove le vie della professione sono infinite, i semafori pochi e i gendarmi quasi punti. Una commedia che va in scena ormai ogni giorno.

 

Supponiamo che io sia un appassionato, così per dire, di lepidotteri. Di farfalle, insomma.

Qualcuno fonda il club degli amanti dei lepidotteri e io mi iscrivo.

Come ogni club, dopo un po’ anche il mio si dota di una house organ. Che, un bel giorno, il presidente decide di registrare come testata giornalistica, affidandone la direzione pro forma a un giornalista amico, ma nei fatti dirigendola lui. Di questi casi se ne contano a centinaia, in Italia. E ognuno è una rotella dell’ingranaggio della grande filiera del giornalistificio.

Il meccanismo è semplice e funziona a pieno regime.

Poiché molti lepidotterofili bramano una visibilità pubblica, smaniano per scrivere articoli e cullano il segreto e inspiegabile sogno di diventare giornalisti (specializzati in lepidotterofilia o anche altro: la vanità tramuta chiunque in tuttologo), viene loro facile trovare ampio spazio sull’house organ: accumulano presto, in tal modo, il numero minimo di articoli necessario per chiedere l’accesso all’Odg.

L’indispensabile certificazione dei compensi e dei versamenti previdenziali è una mera formalità: i primi vengono attestati dal direttore compiacente mentre i secondi, more solito, se li paga il candidato di tasca propria.

Si sapeva già? Certo, ma questo è solo l’inizio.

Lo step successivo e meno appariscente, che porta ad un elevato livello di autonomia la catena di montaggio, si registra quando il fondatore del club e della rivista, imparato il giochino e divenuto a sua volta giornalista, fa fuori l’amico e si issa alla direzione della rivista medesima.

Qui infatti il giornalistificio innesta il turbo: lo scopo principale della testata è diventato non più quello di informare i soci e di offrire a qualcuno di loro il vantaggio collaterale di ottenere per vie traverse il famoso “patentino”, ma esclusivamente di fungere da strumento diretto per l’iscrizione di tutti o quasi all’elenco dei pubblicisti, via tacito passaparola.

Si avvia così una progressione geometrica inarrestabile.

Uno: ogni neogiornalista lepidotterofilo, esibendo orgogliosamente il titolo professionale acquisito nei modi detti, dapprima comincia a imbucarsi ovunque beneficiando di gadget e tartine e producendo a raffica, ovviamente gratis, articoletti sulle “splendide cornici”.

Due: dopo un po’ fonda a sua volta una propria rivista on line, ospitandovi altri giornalisti alla buona e soprattutto non giornalisti: i secondi desiderosi di scrivere articoli per accesso all’albo, i primi desiderosi di accrediti, inviti, frequentazioni, collaborazioni da ostentare purché siano. Di soldi non se ne parla, ovviamente, ma il punto è irrilevante considerato che, per campare, si tratta di persone che, per loro fortuna, campano d’altro.

Insomma, tutti sono contenti, o quasi: la gente si diverte, può scrivere “giornalista” sul biglietto da visita e sulla propria pagina FB mentre blog, testate e portali si garantiscono un flusso pressochè ininterrotto di autori di contenuti gratuiti.

Pazienza se sono scritti coi piedi, pieni di sciocchezze e spesso in clamoroso conflitto di interessi. Qualsiasi produttore di cibo per farfalle, falegname che fabbrica teche per farfalle, commerciante che vende retini per farfalle può trovare una propria collocazione nell’allegro mondo dell’informazione lepidotterofila o presunta tale, il tutto alimentato dalla benzina dei social. E chiunque, si capisce, può scrivere articoli pubblicitari su sè medesimo e sugli amici, senza che nessuno trovi da eccepire alcunché.

Il moto è perpetuo, appunto. Un cerchio che si chiude. E sono scene di tutti i giorni.

Chiamasi paradosso del giornalistificio: l’ipertrofia farlocca della professione, sopprimendo il valore della professionalità, ha finito per uccidere se stessa.

Palla al centro.