di URANO CUPISTI
Il Fuji divenne un ricordo e la nave prese il mare. Le Hawaii, Panama (“ma andiamo a est o a ovest?“), i venti di guerra tra Cuba e Usa, l’Atlantico forza 7, i dischi dei Platters nella base militare di Norfolk. Tutto per portare carbone a Venezia (per il viaggio Italia-Giappone, qui)

 

Il Monte Fuji scomparì piano piano dalla vista, portando con se tutti i miei segreti e i momenti intimi della imperiale visione.
Non era più tempo di rimanere a poppa ad osservare la scia delle eliche, ma di spostarsi a prua e perdersi nell’osservazione del futuro, ovvero dell’Oceano Pacifico.
La Deneb, senza carico e quindi leggera come una piuma, fendeva le onde spinta dai suoi potenti motori.
Ricordo mio padre, in un momento di riposo, che appoggiò l’orecchio sulla ringhiera di lato per “ascoltare” le vibrazioni. “Fantastici questi due Man”. M.A.N., acronimo di Maschinenfabrik Ausburg Numberg, era l’equipaggiamento propulsivo in dotazione alla nave, il preferito da mio padre per la sua affidabilità.
La rotta verso Est, al limite del Tropico del Cancro, prevedeva l’avvistamento dell’atollo Kure e del successivo, storico, Midway. Contrafforti della catena delle ben conosciute, fascinose Hawaii.
Tre fischi prolungati salutarono il passaggio del Meridiano Zero, quello del dateline, il cambio data. Che emozione. Con tanto di foto indicando la carta nautica e il punto-nave. Insomma, “io c’ero“.
Era di sera quando passammo a dritta i due atolli. Sembrarono sorgere e scomparire, come inghiottiti, con un suggestivo effetto visivo. Il mio entusiasmo cercava inutilmente di rallentare il passaggio di quella visione. Furono momenti che mi portarono a improvvise riflessioni filsofiche, tipo “su questa terra siamo presenti per queste brevi passeggiate e poi torniamo a casa con un bagaglio pieno di consapevolezza della ricchezza e della bellezza del nostro pianeta”.
La mattina costeggiammo (si fa per dire, vista la lontananza) Kavai, la vera prima isola hawaiana. Non accadde nulla. Eppure immaginai le scene cinematografiche dell’arrembaggio dei “nativi”. Nessuna piroga con a bordo belle hawaiane con corone di fiori. Incrociammo, al loro posto, tante imbarcazioni da diporto di facoltosi americani perennemente in vacanza nelle isole del Mare del Sud.
Non vedemmo poi, per alcuni giorni, altra terra ferma. Solo mare, fino all’avvistamento di Panama City, dove arrivammo di sera. C’erano tante navi in attesa del proprio turno per l’attraversamento del Canale.
Al mattino arrivò l’ok da parte delle autorità. Una pilotina panamense affiancò la nave e il comandante pilota salì a bordo. Il nostro capitano, con il classico saluto alla militare, gli consegnò ufficialmente la Deneb ponendosi ai suoi ordini. Quell’incontro fu speciale, un momento che è rimasto e rimarrà a lungo nella mia memoria.
Il Canale: poco più di 80 km navigabili dal Pacifico all’Atlantico e viceversa. Allora aveva una profondità massima di 12 mt e una larghezza che variava tra i 300 mt nel lago Gatún e i 90 nel tratto del taglio della Culebra. Era costituito da un sistema di sei chiuse, tre lato Pacifico e tre lato Atlantico, che permetteva alle navi di superare un dislivello di 28m. Per attraversare il canale allora servivano 8 ore ma oggi, con nuove vie, nuove profondità e tonnellaggi di gran lunga superiori, i tempi si sono dimezzati.
Correvo da poppa a prua e viceversa per non perdermi niente. Dall’alto della plancia assistetti a tutte le manovre per superare le chiuse, navigare i due laghi, con il Miraflores più in basso del Gatun, passare nel taglio della Culebra e raggiungere la baia atlantica di Limon presso il porto di Cristobal. Il tutto secondo le Regole di Navigazione del Canale che il nostro Capitano con una firma accettò al momento della salita a bordo del Pilota.
Che strana sensazione. Perdita di orientamento causato dalla conformazione del continente americano. Ci volle l’attenta lettura delle carte nautiche per capire che, in pratica, eravamo partiti dal Pacifico tornando verso Ovest. Solo una volta raggiunto l’imbocco atlantico ritornammo a navigare verso Est.
Sulla dritta sfilarono le minuscole Isole San Blas, abitate dai Cuna, discendenti dei Maya. La rotta era verso Nord-Est. Riferimento nautico Canal de La Mona, che divide Santo Domingo da Portorico. Rotta più tranquilla visti i venti di guerra di allora tra Stati Uniti e Cuba. Altrimenti avremmo navigato verso Paso de los Vientos, canale marino che divide Haiti da Cuba.
Superammo il Canal de la Mona prendendo il largo fuori dalle protezioni delle isole del Mar delle Antille. L’Oceano Atlantico si fece sentire e la Deneb prese il suo primo “mare forza 6-7”. Con una nave senza carico fu un battesimo, anche per me, agitato. Messo a dura prova, con mare “di traverso” per due giorni, attraversammo il triangolo delle Bermude fino ad avvistare Cape Hatteras, punto sud-orientale degli Outer Banks, Carolina del Nord. Presto saremmo arrivati in Virginia nella baia di Norfolk.
Entrammo nella baia di notte. Sagome di navi da guerra sia a babordo che a tribordo. L’attesa “pilotina” portò un comandante molto irrequieto. Ancora non avevo capito di trovarmi nella baia militare più grande degli Usa e non solo. Dovevamo far presto a “toglierci di mezzo” ed attraccare al molo mercantile numero 6.
Le autorità non rilasciarono alcuna carta di sbarco. Fu permesso di raggiungere l’unico “drugstore” in fondo al pontile, in zona extra-doganale, dove comprai gli allora ambiti long playing dei Platters, le cioccolate Hershey, il caffè solubile decaffeinato Sanka e le mitiche Life Savers, le caramelle con il buco salva-vita, ancora introvabili in Italia se non acquistate negli spacci “americani” come il mercatino di Livorno.
La permanenza a Norfolk fu di sole sedici ore. Caricammo ben 25.000 tonnellate di carbone sfuso, senza utilizzo di alcun bigo o mancina, ma con il rivoluzionario sistema, per quei tempi, dei “soffioni”. Mossi da turbine, a due stive alla volta.
Carico completato e via in mare aperto.
Tornerò, mi dissi. A dire il vero ci sono tornato in tempi bellici meno acuti, sempre con mio padre, e devo dire che la prima volta non avevo perso niente.
La rotta riprese infine verso est: mancavano ancora tredici giorni di navigazione prima di attraccare a Porto Marghera-Venezia. Si punta sull’Isola Santa Maria, alle Azzorre, e poi dritti sullo Stretto di Gibilterra.
Era mezzogiorno quando avvistammo Calpe e Abyla, le Colonne d’Ercole. Il mare si stava rafforzando. Un forte vento da Levante, il Levanter, aveva già posizionato la sua nuvola a bandiera sulla Rocca di Gibilterra, presagio di burrasca. Non mancava nessun elemento per comprendere e vivere le descrizioni apocalittiche della fine del mondo narrate dagli antichi fenici e greci.
La Deneb ondeggiando superò le Colonne solcando il Mar d’Alboran. Finalmente eravamo al sicuro nel Mare Nostrum.
La vista delle Egadi portò a bordo un po’ d’aria di casa e il doppiaggio di Punta Leuca a sinistra ci accompagnò nelle acque calme dell’Adriatico. Il babbo, invitandomi ad osservare con il binocolo il capo, il faro e la chiesa bianca, recitò parte del Salmo 107:23-30: “Egli riduce la tempesta a un mormorio e le sue onde son fatte tacere. Al loro acquetarsi essi si rallegrano, ed egli li conduce al porto da loro desiderato”. Quella religiosità così forte che non avevo ancora scoperto in lui.
Il viaggio era al termine. Il mio primo giro del mondo con mio padre era compiuto. Tra i miei bagagli c’era un sacco pieno di cartine, appunti, ricordi. Quando uno compie un viaggio come questo ne sente il richiamo per tutta la vita. Anche adesso, mentre scrivo e lo ricordo: oltre l’immaginazione.