Stanotte è morto Niki Lauda, un idolo generazionale prima ancora che un campionissimo del volante e simbolo di una dimensione sportiva oggi inconcepibile.

 

Ci sono cose che non avresti mai pensato di scrivere, per la semplice ragione che ti sono sempre apparse impensabili.
Una di queste è che un eroe immortale della tua adolescenza come Niki Lauda potesse morire.
Perché gli dei non muoiono, sono sempre lì, fulgenti nel tuo privato empireo, anche contro ogni terrena evidenza.
Invece stanotte Niki Lauda è morto.
Che avesse problemi di salute si sapeva, ma non era concepibile che potesse morire.
A renderlo immortale non c’erano stati solo i tre titoli mondiali di formula uno, ma soprattutto la sopravvivenza al rogo del Nurburgring, il mostruoso coraggio del rientro in pista dopo un mese, con le piaghe sanguinanti, e il ritiro sotto il diluvio del Fuji all’ultimo gran premio, che gli fecero perdere per un punto il secondo campionato consecutivo sulla Ferrari, ma lo restituirono anche tanto alla dimensione umana quanto alla leggenda tragica.
Per me, pure quarantatre anni dopo, Lauda era rimasto quello, lo stesso dei poster che tenevo nella mia stanza e che, ben chiusi e ripiegati in un cassetto, ma non certo dimenticati, conservo ancora. Non aveva mai smesso di essere un idolo, sebbene lui fosse diventato vecchio e io quasi, perché faceva parte e anzi fa comunque parte di quello zoccolo duro dell’esistenza che non si dissolve mai se non con l’esistenza stessa.
Il dolore per la sua morte è cupo, sordo, pesante, irto di incredulità e soprattutto inquietante. Una crepa. Uno scricchiolio sinistro. Grande kasino, come diceva lui.

Vale atque vale.