Nell’ormai accertato e accettato capovolgimento dei ruoli nell’informazione, siamo al punto che i giornalisti sono l’eccezione. Ciononostante c’è la coda a spacciarsi per tali.

 

Non mi ero mai calato nei panni del panda o della foca monaca, ma forse dovrei.

Giorni fa mi chiama il caporedattore di un importante periodico e mi propone un lavoro. Breve spiegazione, accettazione e dopo ventiquattro ore lui si trova sul tavolo scaletta, idee, notizie. Commento: “Come è bello lavorare con un giornalista!“, nel senso che, evidentemente, di solito quel giornale lavora con non colleghi. Segue mio imbarazzato silenzio.

Passano tre giorni, conferenza stampa. Convenevoli con l’addetta, scambi di informazioni, qualche domanda. E poi lei: “Oh, finalmente un giornalista“. Ci metto un attimo a capire che si rallegrava non della mia professionalità, ma del semplice fatto di aver incontrato un raro giornalista in un ambiente in cui siamo sempre di meno, anche se in teoria dovremmo invece esserci solo noi.

Passa una settimana, miniviaggio stampa. Chiacchiere varie con l’organizzatore. A un certo punto lui fa: “Oggi per metà siete giornalisti“. Sbalordito, faccio una verifica. E’ vero: si parla di stampa ma solo la metà dei partecipanti è iscritta all’albo. Quasi tutti, però, sui colophon dei giornali (e non giornali) per i quali scrivono, si dichiarano nero su bianco “giornalisti”. Valuto delazioni.

Todos caballeros dunque e ipocrisia a fiumi in un mestiere che chiunque spernacchia, ma che poi tutti simulano di fare. Senza ovviamente farlo davvero, nè saperlo. E sembra pure normale.

Firmato: mosca bianca.

 

DISCLAIMER: a giudicare dai commenti, sembra che questo post venga inteso come un attacco ai non-giornalisti. Niente affatto. E’ un attacco a chi si spaccia per giornalista senza esserlo, a chi non interviene per impedirlo e a chi sui giornali usa, allo scopo di risparmiare, autori non professionali.