VIAGGI & PERSONAGGI,  di Federico Formignani
Nel 1991 intervistai il XIV Dalai Lama. “Nessuno è nato sotto una cattiva stella, semmai c’è chi guarda male il cielo”, mi disse poi un monaco durante uno straordinario viaggio a Tawang, in Arunachal Pradesh, estremo nord indiano.

 

Per il resto del mondo, il Tibet è il “Paese delle Nevi”, un’entità geografica di difficile ubicazione mentale, dato che lo si associa, istintivamente, alla grande catena montuosa dell’Himalaya, che non si sa bene dove abbia inizio e dove finisca, tanto è estesa. Il Tibet è anche il paese del mistero, perché la percezione e il sentito dire comune lo immaginano popolato da monaci dalle vesti rosse e gialle, intenti a modulare con toni bassi e uniformi lunghe preghiere-cantilena in omaggio ai simulacri di Budda (quanto diversi per grandezza e colori uno dall’altro!) contenuti nei monasteri arroccati sui monti. Monasteri faticosi da raggiungere, resi vivi e festosi dalle collane di preghiere di stoffa e di carta che fluttuano nel vento. Oggi, ed è un sentimento pressoché universale, il Tibet si identifica nel suo XIV Dalai Lama, al secolo Tenzin Gyatso, nato nel 1935; è la più alta autorità teocratica del Tibet e per conseguenza la massima autorità spirituale del Buddismo tibetano.

L’ho conosciuto nel 1991 a Comano Terme (Trento) in occasione di un convegno internazionale intitolato “Il Silenzio e i suoi Rumori”, al quale avevano partecipato diverse personalità culturali, scientifiche e religiose. Nel corso dell’intervista, per un documentario radiofonico che avrebbe tentato di confrontare e coagulare gli aspetti propositivi di religioni diverse, il Dalai Lama aveva esordito qualificandosi come semplice “monaco buddista” e tutto il suo percorso – terreno e spirituale – era e sarebbe stato all’insegna di questa sua fortemente reclamata qualifica iniziale. Uomo di fede, di preghiera e d’azione, già nel 1954, in missione a Pechino, aveva tenuto testa a Mao Zedong, Deng Xiaoping e Chou En Lai, nel tentativo di riavere la perduta autonomia.

Nel 1959 il Dalai Lama lascia il Tibet e da questa data, sino al 2011, ricoprirà anche la carica di Capo del Governo in esilio. La sua fama e la sua presenza nel mondo camminano di pari passo; nel 1987 espone all’ONU un “Plan for Tibet” e nel 1989 gli viene conferito il Premio Nobel per la Pace. Ora vive a Dharamsala, nell’Himachal Pradesh indiano. Come tutti i grandi personaggi, è depositario di un’antica saggezza popolare e molte sono le sue riflessioni, i suoi consigli. Quello che mi ha colpito, dell’incontro trentino, non poteva che risultare in sintonia con il tema del convegno: ricorda che talvolta il silenzio è la migliore risposta”. La lingua tibetana riserba altri appellativi per indicare il Dalai Lama: Gyalwa Rinpoche (prezioso conquistatore); Sku Ndun (presenza); Yishin Norbu (gemma che esaudisce i desideri). Persona, dunque, in grado di esaudire i desideri e incitare a seguire la dottrina di Budda.

Il mio Tibet è un Tibet antico che fa ora parte dell’India. A Ovest si chiama Ladakh, un immenso altopiano tra Karakorum e Himalaya, nel quale la tradizione buddista è ancora intatta e vitale; prova ne sia che il Leh Palace del capoluogo di una provincia ora compresa nello stato indiano del Jammu-Kashmir, richiama in maniera sensibile – per la sua configurazione architettonica – il famoso Potala di Lhasa; chi lo frequenta per pregare non manca di rivolgere il pensiero al grandioso monastero tibetano. L’altro Tibet personale è nell’est indiano (Arunachal Pradesh) territorio selvaggio teatro, negli anni Sessanta del secolo scorso, di una cruenta guerra e tuttora reclamato dalla Cina. Le strade d’accesso al monastero di Tawang sono attraversate da festoni di bandierine votive fluttuanti nel vento e processioni di fedeli si inerpicano facendo roteare, con colpi delicati e ripetuti, le thangkas, le ruote della preghiera. I monaci del luogo, sulle orme del Dalai Lama, si spostano da un luogo all’altro della regione professando pillole di saggezza: quella che ho ascoltato a Tawang, con la benedizione di un monaco dall’abito color dell’oro, suonava così: “nessuno è nato sotto una cattiva stella; ci sono semmai uomini che guardano male il cielo”.
In un mio viaggio in India di qualche anno dopo, sono stato a Dharamsala, ma non ho avuto la fortuna di incontrare di nuovo Tenzin Gyatso.