Chiunque, in fondo a un cassetto, ha un vecchio blocco, o un quaderno, o un’agenda mai usati, ma che avrebbe scommesso un giorno sarebbero tornati utili per prendere appunti importanti. Forse, nei giorni sospesi del virus, quel momento è arrivato.

 

Forse è roba da vecchiotti. O forse no.

Ma non sono così sicuro che carta e penna non siano ancora i modi più pratici, sicuri, facili e durevoli per annotare i fatti. Soprattutto quando sei fuori dalla gabbia delle pseudosicurezze digitali e dalla calda camicia di contenzione iperconnettiva.

E in particolare se sei un giornalista, fuori nel mondo, in equilibrio precario – fisico e non – quando devi agire in fretta, mettere in salvo i tuoi appunti, difenderli da tutto e da tutti, pericoli immediati e oblio compresi, e non sai se poi avrai il tempo per raccogliere e fissare meglio quelle note, quei pensieri, quelle intuizioni, quei dettagli che potrebbero presto svanire, sovrascritti da altro o semplicemente cancellati dalla pioggia cambogiana, da uno schizzo di fango africano, magari inghiottiti da un burrone, un crepaccio o una semplice chiavica a cielo aperto perchè non li hai tenuti abbastanza stretti in mano.

E quindi la corsa a infilare quelle note nelle tasche più profonde e sicure, nelle sacche più impermeabili dell’equipaggiamento.

Chi ha viaggiato un po’ avventurosamente e senza paracadute sa di cosa parlo. E lo sa pure chi per lavoro dev’essere sempre capace di raccontare anche il profumo dell’aria e le sfumature di certe situazioni, oltre ciò che accade materialmente. Le occhiate della gente o il colore stesso dei loro occhi, certi giochi d’ombra e le reminiscenze fulminee, transienti, che d’improvviso trapassano la mente quando di colpo ti sorprendi a riannodare fili smarriti tra l’esotismo intorno e i rigurgiti di lezioni del liceo.

So che molti colleghi capiranno che intendo.

Ecco, oggi, come tutti chiuso in casa e coartato a fare ciò che per anni si è maliziosamente rimandato, cioè il riordino di uffici e archivi, mi sono trovato di fronte a una muraglia.

Una muraglia di moleskine, quei libriccini tutti neri, tascabili, con la copertina spessa e una tasca interna per note, ricevute e foglietti sparsi. Bianchi, intonsi.

Non il frutto della previdenza o di un antico accaparramento, ma il banale risultato di un lento e fiducioso accumulo di regali, omaggi, gadget. Tutti lì stipati amorevolmente, in attesa di un uso ritenuto certo e che, invece, certo non è stato e che sempre meno probabilmente sarà.

Sullo scaffale accanto, viceversa, tutti quelli fitti di appunti presi in grafia minuscola, a volte quasi illeggibile per via dell’unica biro sotto mano rimasta a corto di inchiostro. A volte feriti, incisi, sembrano sbocconcellati da un rettile. Con la costola sudicia e le pagine ingiallite, scricchiolanti di sabbia di qualche deserto, o di più grassa terra.

Eppure la vera nostalgia nasce dal biancore dei primi, dalle cose non scritte e non viste, dai fatti non raccontati, dalle tasche non frugate nel timore di averli smarriti, da quelle pagine che non odorano di nulla, solo di carta nuova.

Forse, allora, invece di cantare dal balcone, varrebbe la pena di prenderne  uno, aprirlo e prendere gli appunti per un bel reportage dal vuoto delle strade o dall’erba frusciante del giardino, immobili e deserte come certe moschee della profonda periferia del Cairo all’ora del meriggio.