I press trip suscitano spesso la facile indignazione della gente, giornalisti compresi, e sono additati (talvolta a ragione) come il simbolo della corruttela della categoria. Ma la realtà è più complessa e i pulpiti sono assai variegati.

Sarò sincero e scomodo: i viaggi-stampa sono un po’ come il potere, logorano chi non ci va.
I viaggi-stampa, una volta detti educational, sono quelle gite che qualcuno organizza ospitando dei giornalisti in luoghi più o meno esotici allo scopo di presentargli qualcosa: auto, destinazioni turistiche, vini, cibi, orologi, borse, elettrodomestici, farmaci, prodotti finanziari e anche altro, perfino programmi politici. Nella speranza, il più delle volte ben riposta, che gli invitati parlino, magari positivamente, di ciò che viene loro sottoposto.
Detto così sembra un brutale do ut des e in effetti la logica è quella, ma il meccanismo è assai più raffinato e lubrificato. Comprende molti passaggi e varie sfumature, tendenti da un lato ad attenuare la sensazione di talvolta imbarazzante baratto, dall’altro a produrre condizionamenti più a lungo termine e ad allacciare relazioni personali più durature dell’immediato. Perchè organizzare press trip è, per chi ospita, un investimento costoso.
Disprezzati a parole da tutti i giornalisti veri o presunti, che contro di essi invocano la deontologia professionale (ma, come detto, il sistema è collaudato abbastanza per offrire interstizi e vari lavacri di coscienza), i press trip sono in realtà ambitissimi.
C’è chi farebbe carte false per andarci, vagheggiando godimenti che in realtà non sempre ci sono. Imbucarsi ai viaggi stampa, arte raffinatissima che rappresenta l’aristocrazia della sedicenza, è infatti una capacità riservata a pochi.
Sfuggono però a molti almeno tre aspetti forse meno appariscenti, eppure non meno importanti del fenomeno.
Primo: non è detto che, siccome ti invitano, l’oggetto della visita o il motivo dell’invito non siano belli e che se ne debba parlar bene solo perchè ti ospitano. Spesso è il contrario.
Secondo: il contesto confortevole e godereccio influenza parecchio i principianti, ma assai meno i giornalisti scafati, ai quali non sfuggono punti critici e magagne. E’ demandato alla loro professionalità farne poi menzione o meno negli articoli, sempre che decidano di scriverne uno (il che non è sempre detto).
Terzo e fondamentale elemento: in molte occasioni il vero valore aggiunto del press trip non sono il viaggio o la cena che ti sono offerti, ma il fatto di essere stati invitati mentre altri non lo sono.
Insomma, a volte esserci è la controprova data al mondo che, se sei lì, è perchè conti qualcosa e, quindi, che chi non c’è conta meno di te. A prescindere dal dove, cosa, come, quando. Chiamiamolo pure prestigio, o narcisismo professionale.
Per quest’insieme di ragioni, il facile moralismo di cui molti si ammantano contestando i viaggi stampa e la dubbia “moralità” di chi vi partecipa è spesso – ovviamente non sempre – una sindrome da volpe ed uva: i peggiori critici sono quelli che farebbero qualunque cosa pur di esserci e ciò che più gli rode è appunto non rientrare in quel novero. Da qui l’acrimonia, il livore, la penna rossa con cui setacciano i pezzi dei (fortunati?) partecipanti alla ricerca di una marchetta ritenuta erroneamente imprescindibile.
Non a caso tra i maggiori censori dei press trip (degli altri) c’erano fino a qualche tempo fa i cosiddetti blogger (non mi dilungo, avendolo fatto spesso altrove, ad esempio qui, sull’ambiguità di tale espressione). Categoria che poi, a dimostrazione di quanto siano comode le doppie morali, ha imparato così bene il meccanismo da averne creato per sè uno parallelo, remunerativo assai e libero da fastidiosi vincoli deontologici.
Non meglio dei blogger fanno però quei giornalisti che criticano i colleghi invitati ai viaggi stampa, salvo coltivare a latere attività extragiornalistiche che, appartenendo al genere commerciale, in modo diretto o indiretto alimentano il sistema da cui prendono vita gli educational.
In conclusione: nella maggior parte dei casi il viaggio-stampa logora chi non è invitato.
Cioè chi non ci va. Quelli che sanno fare il proprio lavoro, invero pochi, riescono comunque a leggere tra le righe, i mojito e le pressioni dei pr.
E a salvare così la professione, nonchè la loro reputazione, dal logorio del marketing moderno.