Continuare a ragionare della nostra come di una professione basata su figure “garantite” rigidamente opposte a figure “precarie”, anzichè su modi diversi e intercambiabili di svolgerla, è un limite e un sintomo di grave inadeguatezza culturale.

Professionisti e pubblicisti, professionali e collaboratori, garantiti e precari.
Ovunque, nella dialettica sulla professione, impera questo dualismo. Che talvolta sfocia in contrapposizione e talaltra sfuma in dicotomia. Ma dualismo resta. Dividendo a metà un cielo in cui, in condizioni normali, dovrebbe invece essere possibile volare liberamente.
Così il nostro mestiere, che per ruolo e funzioni dovrebbe essere all’avanguardia dei tempi, si trova ancora a veleggiare tra le nozioni e le paludi espresse da un lessico ottocentesco. Specchio fedele di un’inadeguatezza non solo normativa, ma culturale.
Dico ottocentesco nel senso di obsoleto, fuori dal mondo reale. E per dare anche una misura dell’era ideologica alla quale il nostro mondo pare essersi fermato. Un mondo imbalsamato.
Ci ho pensato stamattina leggendo una nota dell’assostampa (tranquilli, per una volta non parlerò male dell’Fnsi, anzi non me ne occuperò affatto) che vagheggia di un “sindacato unitario“, capace di riunire – segnatamente – gli uni e gli altri. Cioè le (uniche) due presunte anime del mestiere.
Una visione manichea che alberga, va detto, non solo nella mente dei sindacalisti, ma in quella del 95% dei colleghi. Sebbene sia smentita da anni dalla realtà quotidiana.
La quale non solo si evolve nel senso – opposto – di un’idea liquida del lavoro (gli ortodossi non si allarmino, non entrerò nel merito ideologico dell’argomento), ma che, per sopravvivere, quell’idea avrebbe letteralmente bisogno di assecondarla.
Mi spiego.
La “normalita‘” sarebbe che il contrattualizzato, una volta fuoriuscito per qualsiasi ragione da un’azienda, potesse ritrovare in tempi ragionevoli e a condizioni ragionevoli un nuovo lavoro. O come libero professionista, magari pro tempore, o come assunto in un’altra. Oggi invece l’obbiettivo è mantenerlo (mal che vada, “ricollocato”) in un’impresa editoriale decotta. La quale magari, nel tentativo di resistere, lo espone a condizioni di incertezza e di trattamento assai peggiori della messa in mobilità. Insomma, i giornalisti e le organizzazioni che li rappresentano inseguono l’anacronistica chimera del posto garantito anzichè la moderna garanzia di poter lavorare.
Sindrome uguale e contraria sulla sponda opposta: è normale dover chiamare “precario“, e inquadrare a vita da tale, un dipendente camuffato, ma senza speranza di assunzione? O non sarebbe più logico e utile creare un sistema in cui l’autonomo è autonomo per davvero, cioè messo nelle condizioni di potersi muovere tra le anse del mercato del lavoro, leggasi ora l’elasticità e la remuneratività tipiche della libera professione e ora la rassicurante rigidità di un eventuale impiego?
Non sarebbe cioè molto più normale un sistema in cui, senza ingessarsi da soli in categorie rigide nelle quali non rientra quasi più nessuno, si potesse passare con agilità da un inquadramento a un altro, avendo per obbiettivo la stabilità e la garanzia del reddito, anzichè quella (peraltro del tutto teorica) del posto?
Parlo, lo sottolineo, non di metalmeccanici o ferrovieri, cioè di categorie anche strutturalmente legate a sistemi più viscosi, ma di giornalisti. Cioè di gente che nella dinamicità, l’adattabilità (anche mentale), la capacità di cogliere le opportunità dovrebbe avere la propria forza.
E invece vedo ovunque un mestiere che, abdicando a una parte di se’, come un lichene resta aggrappato a un modello di professione che non esiste più. E che, se esiste, ormai non è un salvagente, ma si è trasformato in una zavorra collettiva.
Sarebbe bello, anzi bellissimo, se una parte anche minima del dibattito e della campagna elettorale in corso nell’Fnsi, prossima al congresso, fosse dedicata a questo argomento.