Suggerivo all’OdG una norma che, di fatto disincentivando nei giornali il ricorso a chi non è iscritto all’albo, ostacola i falsi giornalisti. Ma c’è anche l’altro lato della medaglia.

 

Il mio post del marzo scorso (un po’ provocatorio, lo ammetto), che invitava l’OdG a fare leva sulle nuove norme dell’Ispettorato Nazionale  in materia di lavoro autonomo occasionale non intellettuale, per “stanare” e perseguire l’abuso di professione e di titolo professionale da parte di falsi giornalisti, dei quali ormai i giornali pullulano, ha sollevato parecchio clamore, un certo dibattito e qualche reazione a sorpresa.

Alcune di queste mi hanno fatto molto riflettere sulla vastità del problema, nonchè sulla molteplicità dei punti di vista dai quali la questione può essere osservata e sulle diverse sensibilità che essa può toccare. Innescando così, fatalmente, anche l’apertura di ragionamenti diversi.

Col neopresidente dell’Ordine dei Giornalisti della Toscana, Giampaolo Marchini, è nato una sorta di stimolante dibattito privato che mi dà ora lo spunto per questo nuovo post.

L’oggetto del contendere (si fa per dire) è stato l’aggettivo “abusivo”. E non si è trattato affatto, come potrebbe sembrare, di una semplice faccenda terminologica, bensì di sostanza.

Io  – sintetizzo, per brevità – avevo dato all’espressione il significato tecnico derivante dall’esercizio, da parte di qualcuno, di un abuso, considerando quindi implicito che fossero definibili “abusivi” coloro i quali, senza essere iscritti all’Albo dei Giornalisti, si definissero tali o esercitassero la professione senza averne i titoli. Contro costoro suggerivo l’invocazione della normativa in parola.

Marchini mi ha risposto che l’abusivismo professionale è una fattispecie esecrabile da combattere senza quartiere, ma che farlo attraverso l’applicazione di quella norma avrebbe rischiato di sortire effetti paradossali: avrebbe infatti potuto fornire all’editore, sorpreso dagli ispettori con un pubblicista a lavorare abusivamente in redazione, l’argomento per dire che il pubblicista medesimo si trovava lì come semplice “collaboratore occasionale” e non come un dipendente di fatto. Se combattere in tal modo l’abuso di professione, ha aggiunto, significa indebolire le possibilità di lotta contro altri abusi, come quelli delle aziende editoriali, forse bisogna trovare strade diverse.

Allora ci ho pensato su. E ho concluso che avevamo ragione tutti e due. La cosa triste, casomai, è che per non danneggiare qualcuno si debba rinunciare a difendere qualcun altro. A riprova che i problemi della categoria si sono a tal punto condensati in un unico blocco da non poter essere affrontati separatamente.

In altre metaforiche parole, abbiamo una sola luna e le dita sono quelle di osservatori che la guardano da prospettive diverse.

Sarebbe necessario che tutto ciò sfociasse in una sintesi e in un’azione unitaria. Cosa possibile solo se le diverse tipologie di cui si compone oggi la professione giornalistica troveranno uguale rappresentanza e peso nelle istituzioni della categoria.