Il più famoso social network fa irruzione nella campagna elettorale dei giornalisti per il rinnovo dei vertici dell’Ordine. Come? Sia con la propaganda diretta, sia con i gruppi. Nulla di cui scandalizzarsi. Ma non sempre tutto è trasparente.

L’ho detto tante volte che la categoria giornalistica ha una natura topesca. Forse non è la sola, ma questo non è un’attenuante.
La natura topesca consiste nell’inclinazione a intessere un’attività febbrile ma sotterranea, della quale in superficie non affiora alcuna traccia. Ma di cui, sotto, il mondo brulica.
E’ ciò che sta accadendo, ad esempio, per le grandi manovre, iniziate da un pezzo, in vista del rinnovo dei vertici dell’Ordine dei Giornalisti, previsto per questa primavera. Sarebbe tutto normale, se non fosse per l’atmosfera un po’ omertosa che l’avvolge. Insomma tutti ci pensano ma nessuno ancora ne parla.
Vi risparmio il riassunto del grottesco pregresso, passato dalle vagheggiate e rivoluzionarie “autoriforme” di un anno fa al plumbeo immobilismo attuale, in cui la prospettiva della consultazione elettorale si muove. E di cui più d’uno non manca di sottolineare, ora con sarcasmo e ora con preoccupazione, l’allure gattopardesca.
Intendiamoci: non è tutta colpa nostra, cioè dei giornalisti.
Non è colpa nostra, cioè, se i vari governi e i vari parlamenti succedutisi nei decenni non hanno mai trovato il tempo, la forza, il modo e il tornaconto di mettere mano a una riforma della professione divenuta talmente urgente che, se giungesse adesso, avrebbe più il sapore di un’operazione funebre che innovatrice.
Ma è in qualche modo colpa nostra se, vittime della degenerazione del sistema da noi stessi costituito, come categoria siamo stati artefici del giornalistificio e siamo ad esempio divenuti ostaggi di chi la categoria, pur facendone solo incidentalmente parte, la condiziona quasi ne fosse (e di fatto ne è) il padrone.
Mi riferisco, per uscir di metafora, all’abnorme numero di pubblicisti altrofacenti (notai, avvocati, idraulici, bancari, etc) che, sedendo in pianta stabile su scranni strategici del Consiglio Nazionale dell’Ordine e avendo come unico scopo il mantenimento della loro posizione, spesso ne condizionano numericamente (e trasversalmente) le scelte fino al punto di imporre decisioni pro dilettanti a quelli che il giornalista (professionisti o pubblicisti che siano) lo fanno per davvero.
Una nuova, raffinata, estrema manifestazione degenerativa di questo topismo professionale si manifesta (a dire il vero non da ora, anzi da un pezzo) anche sui social network e in particolare su Facebook. Ove, sotto spoglie più o meno mentite, oltre agli spot di chi, senza ancora annunciarlo, parla già da candidato, sono nati e stanno nascendo come funghi “gruppi” i quali, nascosti dietro tonitruanti proclami di tutela della professione e di aggregazione tra colleghi, fanno in realtà capo ai diversi capobastone. E operano per monitorare gli umori della base, orientandone scelte, opinioni nonchè, al momento opportuno, voti.
Intendiamoci: non è che siano tutti così. Ci sono gruppi storici. Quelli delle sigle sindacali. Quelli dei precari. Quelli delle varie correnti. Ci sono anche gruppi apertamente schierati. Ma c’è pure una buona parte che fa il pesce in barile.
Distinguere il grano dalla lolla, tuttavia, è facile: basta entrare a farne parte (spesso anzi ci si ritrova iscritti per default, misteri della rete: a me è accaduto nell’80% dei casi) e cominciare a guardarsi intorno con occhio poco ingenuo. Attenzione però a non fare domande troppo pungenti o a prendere posizione troppo scomode perchè, con buona pace della conclamata democraticità, se uno è troppo vispo lo bannano.
E’ chiaro comunque che, coll’avvicinarsi della scadenza elettorale, le maglie cominciano a stringersi, gli spazi della dialettica a ridursi e i veri scopi degli “animatori” di ogni sodalizio tendono a emergere inesorabilmente in tutta la loro esplicitezza.
Insomma, dalla fase di monitoraggio si sta passando a quella di reclutamento e condizionamento.
Qualcuno dirà: embè? Mica è illecito.
Certo, è perfettamente legittimo.
Ma dal mio punto di vista è altrettanto legittimo, per chi ha testa sulle spalle e interessi propri quanto confessabili da difendere, mangiare la foglia e farsi accorto, perchè a ritrovarsi coinvolti nella piena dei massimalismi, delle fazioni e dei ragionamenti un tanto al chilo è facilissimo. E, in questa fase delicata, non troppo acuto.
La situazione della professione richiederebbe infatti da parte di ognuno riflessioni profonde, giudizi autonomi e fuga dalle tentazioni dei consensi di massa. Via paraocchi, pregiudizi, apriorismi scultorei.
Dunque, cari colleghi, continuiamo pure a partecipare con passione, come io stesso faccio (e forse pure troppo), ai dibattiti che ogni tre per due si aprono su FB. Discettiamo, discutiamo. Ma facciamo un briciolo di attenzione a chi i temi li pone e a come li tratta.
A questo punto non mancherà chi pensi dove voglio andare a parare e a chi alludo.
Voglio rassicurarlo: non alludo a nessuno in particolare, mi limito a riportare una sensazione molto netta che avverto da tempo e che, sono certo, non mi inganna.
Mi piacerebbe solo un po’ più di trasparenza.