Divertirsi è sacrosanto, scambiare le cose serie con la caciara, no. Anche avere opinioni su vini e cibi ed esprimerle è sacrosanto, ma la critica è un’altra cosa. L’inversione o l’annullamento dei ruoli porta invece solo reclame camuffata da informazione.

Sono nato nella convinzione che l’informazione sia una cosa seria, qualunque sia l’argomento e compresi, quindi, temi in apparenza più edonistici come il cibo e il vino, di cui mi occupo spesso.
Anzi, a pensarci bene forse quanto più è godereccio e leggero il tema, tanto maggiore dovrebbe essere il rigore nel trattarlo, per distinguere il grano della verità dalla lolla della propaganda.
E invece l’esperienza quotidiana dimostra che le cose stanno andando nella direzione diametralmente opposta.
Mi chiamano a parlare a un convegno come giornalista e mi presentano come “comunicatore“. Vado a una conferenza stampa e l’accalorato ospite si rivolge a noi dicendo che “dovete comunicare“. Ti affacci sull’osteria Facebook ed è un un’orgia di selfie, autopromozioni, passerelle, vanità in libera uscita, attestazioni che “io c’ero” (dando così ad intendere che era importante esserci e che quindi chi invitava è meritevole di rispetto e attenzione), con colleghi che si prestano a fare da testimonial più o meno involontari. Inversione dei ruoli, oltrettutto professionalmente illecita.
A un’altra tavola rotonda qualcuno che pensa di saperla lunga dice che i giornalisti devono “adattarsi” al nuovo linguaggio e alla nuova realtà della comunicazione “liquida”, quella che può fare chiunque: ho dovuto spiegargli che il mio mestiere è raccontare in modo chiaro la verità, non dare consigli per gli acquisti comprensibili a tutti.
Siti e blog di settore sono un concentrato di pubblicità, anche questa palese o occulta, direi ormai nemmeno tanto occulta. I cartacei non sono troppo meglio. I blogger di professione hanno fatto della reclame il loro lavoro e i giornalisti, questo è vero, si stanno adeguando. Oppure diciamo che sono stati perfino sorpassati a destra.
Mangiare, bere, produrre, è tutto un chiacchiericcio frivolo e superficiale, una racconto godereccio, una fiera della mondanità senza il minimo spirito critico o il minimo desiderio di mantenere, magari pure facendolo notare, la propria indipendenza.
Che invece dovrebbe essere la quintessenza del giornalismo.
Giusto che la gente si diverta, giornalisti compresi. Non confondiamo però l’allegra cronaca di degustazione di una shampista un po’ alticcia da quella magari seriosa, ma attendibile, di uno che il cronista lo fa di mestiere e ne porta pure la responsabilità verso l’opinione pubblica.
E poi questa ipocrisia collettiva che siamo tutti amici, dei “tu” che fioccano tra perfetti estranei e perfino tra controparti, quest’appiattimento delle distanze istituzionali tra ruoli e professioni. Ma in nome di che? Per far credere che siamo tutti dalla stessa parte?
Io nei settori dei quali mi occupo ho qualche vero amico (che sarebbe tale a prescindere da ciò che fa), molte ottime conoscenze, tanti rapporti cordiali e trasparenti che però non implicano nè amicizia nè tantomeno complicità, un’infinità di rapporti superficiali di sola, pur sorridente cortesia.
Tendo a dare del” lei” per questioni di educazione, di ruolo, di rispetto (qualcuno dice, non credo sbagliando, anche di generazione): non trovo affatto che un “tu” tendente al becero preservi meglio le relazioni personali. Al contrario, penso che tenda ad avvicinare troppo gente che spesso non ha nè dovrebbe avere nulla in comune.
Sarebbe bello se frou frou fossero solo i biscotti e se, anche senza mai prendersi sul serio oltre la soglia del ridicolo, pure l’enogastronomia rimanesse una cosa accettabilmente compassata.
Sia in chi la fa, sia in chi la critica.