Il cantautore dell’Oklahoma è scomparso ieri, d’improvviso, a 74 anni. Molti, ascoltando le sue canzoni, scopriranno di averle già sentite, senza sapere che erano sue. Aveva composto anche “Cocaine”, divenuta una sorta di maledizione conformistica.

Soundtrack: “Magnolia“, JJ Cale.

Mi pare corresse l’anno 1979 (non ho il tempo di andare a controllare nei sacri archivi, potrebbe anche essere il 1980, ma non credo) e tutti noi del giro accorremmo al Teatro Tenda di Firenze per il concerto di Bruce Cockburn, artista-culto dell’epoca, giustamente incensato dalla rivista a cui tutti noi facevamo riferimento a quei tempi: il Mucchio Selvaggio.
Evento da non perdere. Autore di nicchia, qualità assoluta, un mito in un’Italia “non commerciale” ancora parecchio assetata di musica. Tanto assetata da fare il pienone ogni volta che un musicista di (anche oscura) fama approdava nel Bel Paese. Tutto esaurito a prescindere. E i tremila posti del tendone fiorentino erano facili da riempire.
Ad essere onesti, quello arrivato in riva all’Arno era un Cockburn parecchio spaurito (“…comprendevo a fatica dov’ero e non capivo una parola di quello che mi dicevano“, confesserà un po’ ingenerosamente molti anni dopo), perfino smarrito, ma nessuno sembrò farci caso e men che meno lo dette a vedere.
Sotto la pesante cappa del tendone il canadese cantò volonterosamente. Ma era evidente che, tranne pochissimi, nessuno riconosceva le canzoni. Ciononostante, al termine di ogni brano venivano giù applausi scrocianti.
Al termine, appunto. E mai durante, come succede se l’uditorio ha familiarità con la musica eseguita.
Tranne in un caso: quando nel testo di un pezzo che non ricordo affiorò il temine “cocaine“.
Lì, miracolo. Fu come un riflesso condizionato: al solo udire la parola decine di barbudos, ex fricchettoni, fricchettoni per emulazione, candidi giovani di provincia in ritardo di dieci anni sulla storia, adolescenti cresciuti sui racconti dei fratelli maggiori, parecchi solo e semplicemente “fatti“, all’unisono si levarono in un boato di acclamazione.
Non era stato l’impacciato lirismo di Cockburn a eccitarli e neanche i suoi ceselli chitarristici, ma l’effetto inebriante, quasi pavloviano, della parola “cocaine“.
Idem accadde, anni dopo, durante l’esibizione di Jackson Browne (nonchè di tanti altri).
E dev’essere accaduto centinaia di volte durante i concerti del povero JJ Cale, scomparso ieri a 74 anni e che oggi qui celebriamo, visto che egli era l’autore della più conosciuta, omonima canzone dedicata all’alcaloide: “Cocaine”, appunto. Quella resa famosa da Eric Clapton.
E che è stata capace, per questo, di oscurare quasi del tutto il resto della carriera del musicista, ovvero il 99 per cento di un autore raffinato, sensibile, sincretico di molte influenze, titolare di una ventina di album molti dei quali ritenuti, dalla critica, di prima grandezza.
Non che fosse uno che cercava la celebrità e i lustrini, JJ Cale.
Forse neppure la scansava, in fondo nel music business ci viveva, ma non era la sua dimensione. Amato dai colleghi, benvoluto dai critici, si districava abilmente tra i suoni dell’american music, dedicandosi a un songwriting in punta di penna a volte non immune dall’influenza dei produttori e per questo non sempre apprezzato da chi si aspetta solo sangue, sudore e lacrime.
Ma Cale era musicista molto lontano dalla banalità corrente. Inclusa quella che si eccita al solo sentire certe parole magiche del conformismo.
A me piaceva parecchio, ma credo che questo si fosse capito.