Larry Coryell è morto il 19 febbraio, Valerie Carter il 4 marzo. Un arco di tredici giorni. A parte il fatto di essere musicisti, non so cos’altro condividessero. Io li conobbi a cinque anni l’uno dall’altra e li ho assai amati entrambi. Almeno questo in comune l’avevano.

 

Soundtrack:
Larry Coryell, “Spaces
Valerie Carter, “Whistle Down The Wind

 

Quando da ragazzo ti affacci a un mondo che, ancora non lo sai, diventerà il tuo, attraversi una lunga fase durante la quale ti guardi intorno libero da pregiudizi e tutto ti pare tanto, troppo. Quindi prendi a caso quello che puoi, rimpiangendo da una parte di non saperne abbastanza per discernere bene e temendo, dall’altra, che comunque non ce la farai mai. Senza capire, sotto tanti altri aspetti, che invece la tua è una condizione di verginità privilegiata.
Per ragioni che appaiono oggi forse più oscure di allora, Larry Coryell era dipinto non solo come un chitarrista straordinario, ma recensito e intervistato come una star. Che fosse straordinario era vero, ma che fosse una stella proprio no. La sua fu, presso il grande pubblico giovanile, una sorta di duratura celebrità occasionale, molto legata a certe mode e a un certo sound che all’epoca – era il 1974 – pareva una nuova frontiera.
Lo ascoltavo così senza comprendere, cercando di annodare i fili del suono e facendomi molte domande che solo parecchio tempo dopo ho capito non essere del tutto peregrine, perchè le sensazioni non ingannano. Come chiameremmo oggi quella musica? Fusion? Jazz rock? Questo studio cieco e senza basi a cui con volontà ferrea mi sottoposi allora mi influenzò però profondamente, plasmò  il mio orecchio e per fortuna mi condusse su strade e conoscenze che altrimenti non avrei mai abbracciato. Fu come fare un buon liceo, o godere per caso di buone letture, o avere in sorte un maestro singolarmente bravo. Involontariamente, seminai così il mio futuro musicale. Mi dolgo di non aver potuto acquistare allora, per ragioni di pecunia, i primi dischi di Coryell su Vanguard, etichetta dal nome (mi pareva) elitario e prestigioso, dischi oggi ovviamente introvabili se non in asettiche ristampe o su algidi cd. Ricordo di averne trascritto i titoli in qualche miliardo delle liste di album “da comprare assolutamente” che vergavamo a mano con certi cari amici e di aver spuntato migliaia di volte quegli stessi titoli sui cataloghi di Nannucci, con ordini che partivano in teoria da spese da un milione di lire e finivano in pratica a faticosi esborsi da ventimila.
Non mi ricordo di preciso, invece, come e per quali canali nel 1979 conobbi Valerie Carter. Dev’esserci entrato il Mucchio Selvaggio. L’anno me lo ricordo bene, invece.
Ero molto più grande e avevo conoscenze musicali molto più solide. Il buffo è che il nome della Carter era legato a figure allora già molto famose e senza dubbio importanti ma da me, almeno rispetto ad altre, mai particolarmente amate come Lowell George, James Taylor e il Jackson Browne bound for glory di “Running on empty”.
Mettere le mani su qualche suo disco rimase comunque impensabile fino a quel 2 agosto del 1981, quando Ronald Reagan e il grande sciopero dei controllori regalarono a me e ai miei compagni di viaggio, in volo per NY e la California, una delle più folgoranti opportunità d’avventura e di musica della nostra vita. Tornai con una valigia piena di dischi. E tra questi c’era “Just a Stone’s Throw Away” di Valerie Carter, comprato ovviamente a due soldi tra i cosiddetti “forati”. Erano tempi in cui, se non avevi il disco, la musica si inseguiva, si immaginava, si leggeva, si raccontava, insomma si faceva di tutto tranne che ascoltarla, perchè non è che la radio la trasmettesse o che esistessero altri modi per sentirla: ci voleva l’lp. E una volta che l’avevi, l’ascolto era assorto, vorace, tutto teso a capire se le aspettative erano state rispettate e ben riposte. Così accadde anche con quel disco, che fu profondamente metabolizzato.
L’avevo poi  perduta un po’ di vista, Valery Carter, come tanti musicisti di cui pensi di sapere quasi tutto, o come certi libri da compulsare che sei certo di ritrovare in qualunque momento nella tua disordinata libreria.
Ovviamente sbagliavo.
E così ora comincia il gapfilling discografico.
Se quei vinili non sembrassero santini, sarebbe anche divertente.