Il batterista degli Who, che ieri avrebbe compiuto 70 anni, morì il 7 settembre 1978. Io lo seppi da un cartello scritto a pennarello al SIM di Milano, che visitavo per la prima volta. Fu un doppio rito di passaggio.

 

Avrei voluto scrivere questo post ieri, ma non ho fatto in tempo.
Ieri sarebbe stato il 70° compleanno di Keith Moon, il batterista che, nella mia personale classifica (come tanti, le facevo anche prima di Nick Hornby), occupa il secondo posto assoluto, dietro Bill Bruford, tra i migliori drummer di tutti i tempi.
Non l’amavo per i suoi risaputi eccessi, nè per la sua tecnica forse non eccelsa, ma per un istinto percussivo che faceva di lui una vera macchina da rock and roll.
I motivi, in fondo convergenti, per i quali lo voglio ricordare sono altri, però.
Il primo è che, soffermandomi per un attimo sulla ricorrenza, ho realizzato all’improvviso che da allora sono passati più anni di quelli che Moon aveva vissuto quando è morto, a 32. Cosa che mi ha gettato in un certo sconforto.
Anche perchè (ecco il secondo motivo), quando morì, Moon non è che fosse ancora percepito come “vecchio“, ma certamente era considerato un musicista navigato, arrivato, membro storico di una altrettanto storica band che aveva da tempo raggiunto, e forse superato, il suo apogeo artistico. Insomma: poco più che trentenne, (mi) pareva avesse già dato il meglio.
Il terzo e più importante motivo della mia rievocazione è però molto più personale.
Ieri mi sono tornate di colpo in mente, infatti, le circostanze in cui ebbi la notizia della morte di Keith Moon. Circostanze che, ripensate oggi, la dicono lunga su quanto tempo sia passato e su quanto sia cambiato lo stile di vita – perfino di pensiero e di modo di essere, azzarderei – di chi ascolta il r’n’r.
Il 7 settembre 1978 era un giovedì.
E a Milano era in corso il SIM, il Salone Internazionale della Musica. Uno di quegli eventi-fiera che oggi non si fanno più e che sarebbero anche, per la loro fisicità molto poco elettronica e molto meccanico-cartacea, inconcepibili oltre che antieconomici. Chiuse infatti nel 1987.
Ma per noi, noi nel senso di imberbi appassionati di musica e hifi con tutto ciò che gli ruotava intorno, era un appuntamento mitico, atteso per un anno intero e raggiunto con sacrifici (non solo finanziari) enormi.
Io avevo appena compiuto 18 anni. Avevo superato l’esame di guida, ma non mi avevano ancora spedito la patente. Impensabile prendere la macchina con altri tre amici appiedati, raggiungere Milano, passare una giornata a dir poco inebriante e tornare nel cuore della notte. Il treno ci metteva 4 ore solo per l’andata e noi non conoscevamo la città.
Per fortuna il babbo di Gianni G., uno di noi (gli altri due erano Leonardo B. e Andrea C.), quel giorno doveva andare per lavoro proprio lì: ci caricò tutti e quattro all’alba e via.
L’eccitazione era massima.
Musicalmente parlando eravamo già piuttosto evoluti, avidi lettori della stampa di settore. Superata da tempo la fase Ciao 2001, leggevamo Suono, Stereoplay, Rockstar, Nuovo Sound e, soprattutto, il Mucchio Selvaggio che, notiziona!, al SIM aveva annunciato un proprio stand. Una delle tappe-clou fu proprio lì, per acquistare l’agognato libro “Mentre cala l’oscurità” delle loro edizioni Lakota (erano i testi tradotti di alcuni dischi-icona, con impaginato approssimativo e copertina di Valerio Marini che stingeva, ma io ovviamente ce l’ho ancora). Ricordo che sbirciavamo per individuare i critici del giornale presenti dietro il bancone. Il filiforme Max Stefani indossava un paio di jeans rossi. A ripensarci oggi, è pazzesco considerare come, per noi diciottenni nemmeno troppo alla fame, acquistare un libretto da tremila lire, che oggi comprerebbe senza problemi un qualsiasi settenne, fosse un investimento da soppesare.
Vabbè.
Il Sim si snocciolò così, tra un caldo pazzesco, audizioni varie, la tipica maratona fieristica affrontata con giovanile e infaticabile entusiasmo.
Cambiò tutto verso le 4 del pomeriggio.
Ci affacciamo a un padiglione molto affollato pieno di banconi di case discografiche e di produttori di materiale audio.
In fondo a sinistra lo sguardo casca su un grande foglio di carta bianca, di quella da pacchi direi, appiccicato alla parete con lo scotch e con sopra una scritta vergata a pennarello: “E’ morto Keith Moon“.
Per un attimo tutto si incrinò. Ci scomparvero dal viso il sorriso e l’espressione eccitata. Incanto spezzato. Pochi commenti, molto silenzio, la fiera va avanti. Passano un paio d’ore, il SIM chiude. E a noi pare, ma solo pare, di aver metabolizzato la notizia della morte di qualcuno che avremmo detto immortale.
Quel SIM fu invece, per noi in qualche modo e per il rock and roll certamente, anche una sorta di rito di passaggio. La caduta di una cortina, il transito verso una dimensione diversa della nostra ancor giovane vita musicale. Una svolta.
E durante il lungo, rumoroso ritorno a casa nessuno lo confessò apertamente, ma forse sapevamo già di non essere più gli stessi.