Perdonate il titolo poco fine, lo ammetto. Ma l’ultima uscita di Francesca Borri (che non si capisce se ci è o ci fa) sul Guardian (qui) a proposito della solita questione dei liberi professionisti dell’informazione merita un commento. Senza rancore, ma secco.

La frase rivelatrice, quella che dimostra che Francesca Borri – collega e autoinviata di guerra magari pure brava, ma per i miei gusti troppo incline alla lamentela, del cui caso ho parlato qui non sa bene di cosa parla, quando si addentra nelle problematiche dei freelance, si trova più o meno a metà dell’articolessa da lei pubblicata ieri sul Guardian, per rispondere alla pioggia di inevitabili polemiche sollevate da un suo precedente pezzo. In cui, sempre lamentevolmente, si doleva dei modesti compensi e del destino cinico e baro toccato ai coraggiosi come lei.
Eccola, la frase: “…Ma poi, a pensarci, è giusto che io guardi ai freelance, ai più fragili? Devo pretendere da loro una reazione, o forse non piuttosto da quei direttori che potrebbero cambiare le cose, invece di ‘twittarmi’ solidarietà?“.
Più fragili? Eh, no, cara Borri: più fragili un cazzo.
I freelance, quelli veri (mi dispiace assai usare quest’aggettivo retoricissimo e abusatissimo, ma non me ne viene uno migliore), non sono affatto i più fragili. Se lo fossero, non farebbero i freelance. Cioè non sarebbero professionisti che, pur tra gli alti e bassi fisiologici in una declinazione particolarmente precaria della libera professione come quella del giornalista indipendente, riescono comunque a galleggiare, a campare la famiglia, a rischiare, a esporsi, a riciclarsi ma comunque portando a casa qualcosa che si può definire un lavoro remunerato e non elemosine o spiccioli o mance occasionali. Sono gli stessi che, capito che è aria di chiudere, chiudono.
Comprendi la differenza, vero?
Non si tratta solo di sapersi vendere o, come certi dicono, di “avere un mercato“. Certo, questo è importante, ma se lo prendi come unico requisito si trasforma in una sciocchezza.
Si tratta anche di avere le palle, il pelo sullo stomaco, la scafatezza, le cicatrici, l’esperienza, il cinismo, il disincanto, la mancanza di scrupoli per essere capaci di capire dov’è lo spazio e come conquistarselo, di intuire quando non ce n’è e di trarne le dolorose conclusioni, di sapersi riciclare, di rinunciare.
L’autoaccanimento terapeutico professionale al quale molti colleghi, tu compresa, si dedicano per un numero esagerato di anni con tenacia degna di cause migliori non è affatto la scelta più saggia. E’ solo un’agonia prolungata, un’alimentazione forzata di illusioni.
Chi ha la testa sulle spalle dev’essere in grado di rendersi conto se l’avventura è finita oppure no.
Non c’entrano l’autostima, la società sempre colpevole, l’incomprensione, gli editori sempre ottusi, i direttori sempre stronzi e basta. E’ un apparato di alibi che sa tanto dell'”a me m’ha rovinato una malattia” di Nando Moriconi, alias Alberto Sordi.
E non puoi affermare – no, davvero non puoi, please – “…in Italia si stima che circa due terzi degli articoli che compaiono ogni giorno su riviste e quotidiani siano il prodotto di ragazzi come me“.
“Come te” in che senso?
Freelance come te? Freelance un tubo, vedi sopra.
Sottopagati come te? Questo forse sì, ma almeno loro hanno la fonte inesauribile della cronaca che, se non altro quantitativamente, gli dà garanzia di aver molto da lavorare anche se non di guadagnare.
Ma le tue corrispondenze dalla Siria? Queste assimilerebbero tu a “loro“?
Ma per favore.
Dicci piuttosto – perchè la cosa mi interessa parecchio anche a livello personale – com’è che campi materialmente facendoti pagare un pezzo dalla Siria 70 euro.
Sì, perchè in Siria vivere, andarci, tornare, mangiare, proteggersi, spostarsi, documentarsi, attrezzarsi, aggiornarsi, cercare notizie, verificarle, telefonare, connettersi costa.
Io ho lavorato parecchio all’estero, in tanti paesi molti dei quali parecchio sgarrupati, in ogni condizione e occupandomi di millanta cose, dal frivolo al serissimo, ma col fischio che avrei potuto sopravvivere anche scrivendo un pezzo al giorno per 365 giorni all’anno pagato 70 euro.
Insomma, chi ti mantiene per davvero per consentirti di giocare a fare il freelance oltre confine?
Francamente mi dispiace che la viperosa Soncini ti abbia dato una spazzolata, ma aveva ragione. E te lo dico senza rancore, con tutta la simpatia possibile e, credimi, entro certi termini anche con una solidale comprensione da collega. Ma io il freelance lo faccio per scelta da un quarto di secolo e ci vivo, lo so di che parlo.
Quindi certe tue sciocchezze un po’ ruffiane ad usum populi offendono me, i pochi sopravvissuti del mestiere e i tanti più bravi di me e di te che, saggiamente, vi hanno rinunciato per mancanza di remuneratività.
Dunque lascia perdere cosa ne pensano i siriani delle nostre piccole miserie professionali, hanno altro di cui occuparsi.
E noi la nostra piccola guerra professionale combattiamola pure. Ma con le armi vere, non con le pistole ad acqua del pietismo giovanilistico.