La “Primanteprima” del vino toscano ha mostrato un quadro chiaroscurale che richiede riflessioni in chiave forse più strutturale e meno congiunturale. Esempi? Americani in fuga, vigneti a oltre quota mille e olivi che crescono anche in Valtellina.

 

I contenuti di Primanteprima, il tradizionale evento-conferenza che ha preceduto la settimana delle anteprime del vino toscano in chiusura oggi al Palaffari di Firenze, dopo il trittico Chianti Classico-Nobile di Montepulciano-Chianti&Morellino, con le etichette de ”L’Altra Toscana”, sono stati quest’anno particolarmente interessanti.

E si prestano ad essere incrociati per consentire considerazioni più trasversali.

La prima è che, anche e forse malgrado un sistema produttivo solido, virtuoso (è qui il 17% della superficie vitata bio in Italia: su quasi 61mila ettari del vigneto regionale, 23 mila sono certificati biologici, pari al 38% del totale) e ben avviato sui mercati di tutto il mondo, nemmeno la Toscana è immune dai potenti venti di crisi che attraversano il settore del vino su scala planetaria. Sia perché al cospetto di certi fenomeni mondiali non c’è assetto strutturato che tenga, sia perché, nella natura composita di quel sistema, non è detto che l’elasticità sia di per sé un vantaggio.

A prescindere quindi dall’abbondante acqua che gli addetti ai lavori tentano comprensibilmente di gettare sul fuoco giocando un po’ su numeri, distinguo e percentuali, la sensazione è che si provi a mettere in mostra il dito per non far guardare la luna: secondo i dati illustrati da Fabio Del Bravo di Ismea, nel 2023 sono stati imbottigliati 1,2 milioni di ettolitri di vino DOP toscano (-7,6% rispetto al 2022), mentre l’IGP con 690 mila ettolitri ha registrato un – 6%. Sul mercato interno il vino Toscano DOP ha avuto performance inferiori alla media delle DOP italiane. In Gdo la domanda interna di vini toscani DOP ha accusato un -5,8%  in volume contro il -3,4% delle DOP totali e un -3,6% dei vini fermi nel complesso. La situazione, insomma, è tutt’altro che rosea e forse sarebbe il caso di prenderne atto. Magari provando a mettere in discussione (il che non vuol dire demolirlo, né demonizzarlo) il modello.

Anche perché nemmeno l’estero contribuisce a compensare le perdite domestiche: secondo i dati Istat gennaio-ottobre si stima nelle esportazioni di vino DOP toscani un -13% di volume e un -5% in valore. “Colpa” della forte concentrazione delle vendite nel mercato Usa, che assorbe il 31% del volume e 38% del valore del vino made in Italy ma è oggi in seria difficoltà (-20% in volume e -3% in valore), con una fase di trasformazioni profonde destinate a mutare in modo strutturale lo scenario finora conosciuto, ha spiegato alla platea Carlo Flamini, responsabile dell’Osservatorio del Vino dell’Unione Italiana Vini. In generale, nel 2023 la perdita più consistente dell’export del vino toscano è stata infatti verso i Paesi Extra-Ue (-15%) a fronte del -7% maturato all’interno dell’Ue. Male, però, anche altre piazze tradizionalmente favorevoli come Germania, Canada, Svizzera e Regno Unito (ove di registra un -9% dei volumi e appena un +1% nei valori.

La seconda considerazione è che la disaffezione verso il vino da parte dei giovani nella fascia 18-25, i cosiddetti consumatori di domani (o, viceversa, lo scarso appeal del vino su costoro), spesso agitata come un campanello di allarme e il sintomo della necessità approcciare diversamente quella fetta mercato per conquistarla, dovrebbe essere forse interpretata in altro modo. Nel senso (affermazione provocatoria, lo so, ma a mio parere non del tutto peregrina) di un’incompatibilità culturale, direi quasi anagrafica, tra quel segmento di popolazione e il prodotto-vino come lo intendiamo oggi: cioè non più un alimento quotidiano, ma una bevanda voluttuaria, di qualità almeno accettabile e quindi di costo non irrilevante, da consumare “consapevolmente”, ovvero poco. Una direzione nella quale sta andando l’intera società mondiale e in particolare quella dei giovani americani che, ha insistito Flamini, puntano su altre tipologie di alcolici più adatte alle loro esigenze in termini sia di salute/benessere/lifestyle, sia di aderenza a una dimensione di “consumo a seconda dell’occasione”.

In altre parole, viene il dubbio che oggi il vino sia un prodotto al quale è naturale approdare lentamente, maturando con l’età e la disponibilità economica. E che non sia affatto vero che ad esso si possa comunque essere educati fin da giovani. Banalmente, alle nuove generazioni (come in fondo alla mia, quando giovani eravamo noi) il vino buono interessa poco o sempre meno: ci sono un’infinità di alternative e di bevande più eccitanti e meno costose per divertirsi.

Sarò accusato di insinuare che il vino è un prodotto “da vecchi”? Magari sì.

Ma anche se fosse? Oggi la maturità va dai 25 ai 70 anni e la terza età arriva a oltre gli 80, con buone capacità economiche e alti numeri, vista la generale tendenza all’invecchiamento della popolazione economicamente solida mondiale. Mi chiedo e vi chiedo se non sarebbe più ragionevole individuare in questa vasta fascia il target principale, senza insistere coi tentativi di adattare il prodotto alle presunte esigenze di un consumatore acerbo, sempre più refrattario. Viene a sostegno dell’argomento una delle poche percentuali incoraggianti emerse da Primanteprima: almeno in italia, le categorie di giovani “prefamily e le famiglie con figli piccoli segnano rispettivamente acquisti di un +3% e +6% rispetto al 2022, mentre i maggiori acquirenti di vino – il 68% del totale – restano gli over 60 con reddito medio-alto, residenti nel Centro Nord.

La terza considerazione viene a proposito di un altro tema ampiamente abusato: il cambiamento climatico. Un fatto evidente, ma meno oggettivo e più complesso di quanto la vulgata non lo descriva. I dati nel medio-breve periodo, che poi sono quelli che interessano produzione vinicola e il suo mercato, ci dicono che il global warming incide sì a 360° sul ciclo vegetativo della vite e dell’agricoltura in generale, ma gli effetti davvero negativi si manifestano col verificarsi di eventi meteorologici estremi e concentrati in brevi quanto fondamentali momenti della stagione: le gelate primaverili, le “notti tropicali” (quelle in cui l’escursione termica col giorno è minima e la temperatura non scende mai sotto i 20°), le precipitazioni massicce racchiuse in poche settimane (primavera e autunno), con effetti disastrosi. E’ qui che devono concentrarsi la ricerca tecnologica, le scelte agronomiche e le tecniche di cantina. Temi puntualmente sottolineati da Bernardo Gozzini del Consorzio Lamma, che ha anche sottolineato come da un po’ l’agricoltura italiana stia già mostrando segnali di adattamento alle mutate condizioni climatiche: negli ultimi 5 anni, ad esempio, le coltivazioni di frutti tropicali in Italia sono triplicate (banana, avocado, mango, a cui si aggiungono colture sperimentali di caffè), mentre quelle di alcune varietà “migrano” da un’area all’altra del paese. Così la produzione industriale di pomodori cresce nel Nord (+27%) e scende nel Sud (-17%), i vigneti si arrampicano oltre i 1200 metri di altezza, mentre in Valtellina crescono oggi 10mila olivi.