“Extravergine” è un’espressione che appartiene al vasto novero di termini buoni per tutte le stagioni, ma di cui nessuno sa poi realmente circoscrivere il senso. Il dibattito sull’olivicoltura sviluppatosi a margine di un mio recente post lo dimostra.

L’involontario fuoco alle polveri l’ha dato giorni fa, sul suo blog “Olio Officina” (qui), l’amico Luigi Caricato, chiedendosi quale fosse la logica di dedicare una “guida” a prodotti di breve vita come l’extravergine, circondati oltretutto da una generalizzata ignoranza. Gli ho fatto sponda io (qui) su Alta Fedeltà, rilanciando l’interrogativo e ampliandolo: quale dovrebbe e potrebbe essere lo strumento per rilanciare in Italia la latitante conoscenza in materia di olio? Tra i commenti è intervenuto Francesco Bonfio, presidente Vinarius ed ex presidente del Consorzio Dop Terre di Siena.
Ne è nato una sorta di ping pong a tre, espressione di tre diversi modi di vedere le cose.
Più ottimista e battagliero Caricato, convinto che le secche in cui langue il tema “olio” siano il frutto di un ciclo negativo, ma rimediabile, soprattutto investendo nel modo giusto sul versante di una cultura legata al prodotto, capace anche di riaccendere il coraggio degli imprenditori nostrani. E annuncia il tal senso, per gennaio, un’iniziativa milanese da lui stesso ideata e organizzata.
Più realistico Bonfio, il quale, pur condividendo la natura essenzialmente culturale della questione, giudica però l’olivicoltura italiana sulla china di un tramonto inevitabile ed invita, per salvare il salvabile, a privilegiare il prodotto di nicchia e i mercati più ricettivi, cioè quelli stranieri, lasciando perdere la piazza nazionale.
Dal mio punto di vista, la questione fondamentale è la salvaguardia dell’olivicoltura (di cui quella dell’olio di qualità è una conseguenza), in quanto essa investe non solo fattori economici, ma sociali e ambientali fondamentali per il nostro paese, quali il paesaggio e la ruralità. Un’olivicoltura di cui il prodotto è dunque la ciambella di salvataggio e che in tale chiave va prima di tutto interpretato.
Voci diverse e argomenti diversi, a volte dissonanti, eppure alla fine convergenti.
La differenza sta nel modo, nell’individuazione degli strumenti e dei soggetti destinati a utilizzarli. Le risorse ci sarebbero, ma vanno sottratte alle grinfie di chi, da sempre, le spreca o ne abusa (spesso ambedue le cose) senza produrre alcun risultato.
L’olivicoltura italiana è dunque un’ex asset andata sbriciolandosi forse irrimediabilmente, dissoluzione di cui c’è solo da prendere atto, o qualcosa di sofferente ma di ancora salvabile, purchè con un impegnativo colpo di reni, un grado di ricompattare il settore? Ma quanto l’estesa polverizzazione del settore stesso, le sue viscosità sociali, i suoi retaggi legati alla politica e al clientelismo, la sua deprofessionalizzazione possono essere sensibile a un’azione di questo tipo? E in quale punto del confine si separano le strade di chi può riscattarsi e di chi declina invece verso l’abbandono?
La discussione è arrivata a questo bivio e attende di procedere. Ma forse la cosa più importante è che se ne parli e che le limacciose acque attorno all’olio si smuovano da una stagnazione durata troppo tempo.
Dite la vostra!
La vostra opinione qual’è?