A Spoleto nasce la piantagione pensata per essere “al centro” del progetto: 20 ha suddivisi in 9 campi monocultivar, sesti studiati ad hoc per ottimizzare Lai e impollinazione, drenaggio interfila, impianto ad aria compressa e QR su ogni pianta.

 

Poche cose sono noiose e inutili più della retorica georgica, cioè di quelle tiritere interminabili e moraleggianti sulle virtù perdute dei tempi andati in agricoltura, con vagheggiamenti di età dell’oro forse mai esistite e comunque oggi lontane ormai da qualunque realistica opportunità di riesumazione.

Segue a ruota la fuffa che vorrebbe il paesaggio, frutto fatalmente mutevole della laboriosità e delle necessità rurali, trasformato in una sorta di immobile quinta ad uso e consumo di turisti, oleografi e benpensanti.

Ci riflettevo mentre, giorni fa, ascoltavo la presentazione fatta a ospiti e giornalisti della nuova piantagione che i Gaudenzifrantoiani di Trevi partiti dal nulla o quasi trent’anni fa e oggi gestori di 70 ettari di oliveti all’interno di diverse aree della Dop Umbria – hanno inaugurato, con la messa a dimora della prima piantina, sul fianco di una collina della campagna spoletina. L’hanno chiamato Poderi dei Colli Martani.

L’idea da cui è nato il progetto potrà apparire banale, ma solo agli inesperti della materia. Ed è questa: “Mettere l’oliveto al centro“. In altre parole, fare in modo che ogni scelta progettuale, tecnico-agronomica e strategica del nuovo impianto sia compiuta in base allo scopo, prioritario, di dare alla piantagione la massima razionalità e perciò floridezza, redditività, gestibilità, bontà di risultati, costanza produttiva, inserimento nell’ecosistema.

Si fa presto a dirlo. Basta però avere un po’ di esperienza nel settore per sapere che, di solito e nonostante tutte le buone intenzioni, spesso succede il contrario: ovvero che, tra condizionamenti ambientali, vincoli vari, economie, stato pregresso dei luoghi, è l’impianto che alla fine si adatta al resto. Un esito classico che, da sempre, contraddistingue l’olivicoltura nel suo eterno destino di subalternità rispetto ad altre colture più esigenti o “nobili”. E per effetto del quale i propositi di “fare olivicoltura” in senso moderno si riducono la maggior parte delle volte, come è stato detto, a “coltivare l’olivo“. Due cose ben diverse. Lo ha sottolineato con efficacia, introducendo i lavori, pure il professor Maurizio Servili del Dipartimento di Scienze agrarie Alimentari ed Ambientali dell’Università degli studi di Perugia: “L’Italia è l’unico paese al mondo in cui la produzione di olio è in calo costante e il motivo è noto: la nostra è un’olivicoltura ottocentesca, “antica”, poco produttiva e costosa, non imprenditoriale, inadeguata ai tempi e al sistema. Bisognerebbe ripiantare ovunque, con criteri moderni“.

Francesco Gaudenzi ha fatto sua questa riflessione e ha guardato anche più lontano.

Sapendo che l’olivicoltura è roba da tempi lunghi, li ha prevenuti e ha fatto coincidere la creazione della nuova azienda col fatidico “passaggio generazionale” tra sè e i figli Stefano e Andrea, giovani ma già formati, per evitare che l’azienda potesse trovarsi in futuro ad affrontare il momento in circostanze peggiori (dalle statistiche sembra che solo il 17% delle imprese si ponga la questione col giusto tempismo e che il 25% di quelle che si lasciano “sorprendere” chiuda o passi di mano). Un atto di lungimiranza e coraggio non secondari, visto che il fondatore è tutt’altro che in là con gli anni.

Progettato dall’agronomo Andrea Sisti del Landscape Office Agronomist di Perugia, che lo ha anche illustrato gli intervenuti, il nuovo impianto si colloca su 20 ettari di una più ampia proprietà, tra i 360 e i 450 metri di altitudine, interamente accorpata e divisa in nove unità fondiarie, dette poderi, tutte sistemate a giropoggio. Ogni podere ospita una cultivar diversa, tra quelle tipiche della DOP Umbria (Moraiolo, Dolce Agogia, Nostrale di Rigali, San Felice, Rajo, Pendolino, Leccino, Leccio del Corno e Rosciola), con un filare di impollinatori orientati secondo la direzione e la periodicità dei venti, individuate dopo uno studio meteorologico specifico, che si registrano sul sito durante il periodo di allegagione.

Anche il sesto d’impianto – ha spiegato Sisti – è stato scelto sulla base delle cultivar e dell’ambiente circostante, allo scopo di ottenere un LAI (Leaf Area Index, cioè la misura della superficie fogliare per unità di superficie del suolo, ndr) tra 0,9 e 1,1 e quindi di garantire il miglior risultato in termini di capacità fotosintetica. Lo stesso per quanto riguarda la distribuzione del polline attraverso la ventilazione, con la ricerca della giusta aerazione dei diversi palchi fogliari. In pratica, tutto è progettato per garantire sia la massima gestibilità in termini di cura delle piante, maturazione e quindi di raccolta delle diverse tipologie di olive, sia la massima sostenibilità della stessa piantagione, evitando gli eccessi e i limiti di un modello iperintensivo“.

Non mancano, nella globalità del progetto, siepi e alberi da frutto per aumentare la biodiversità e attestare costantemente la qualità ambientale raggiunta, nonchè la realizzazione di aree ecotonali di transizione tra i nuovi oliveti messi a dimora e quelli preesistenti.

Ma a fare dell’operazione un progetto-pilota forse unico nel suo genere in Italia contribuisce anche altro. Ad esempio uno studio approfondito della storia, agronomica e paesaggististica, del territorio circostante e dei singoli suoli aziendali (esposizione, pedologia, disponibilità di acqua) e la pianificazione delle infrastrutture in base ai potenziali sviluppi, per avere una connettività anche tecnologica e consentire di elaborare piani di coltivazione diversi.

Le fasi che abbiamo affrontato – sintetizza Francesco Gaudenzi – sono state molte, l’una consequenziale all’altra. Siamo partiti con l’installazione della stazione meteo e il monitoraggio della medesima, poi abbiamo continuato con l’arricchimento dei terreni attraverso sovesci di trifoglio e favino e le analisi dei suoli per invidividuare le loro caratteristiche chimico-fisiche. Quindi si è passati alla mappatura dei diversi appezzamenti  e allo studio della loro evoluzione e destinazione colturale nel tempo, a partire dal 1955. A questo punto abbiamo suddiviso la proprietà in “poderi” omogenei e si è proceduto alla sistemazione idraulica, inclusa la realizzazione di un sistema di subirrigazione. Contemporaneamente si è cercato il vivaio più idoneo per l’approvvigionamento delle piantine e delle relative cultivar. E siamo ad oggi, con il primo olivo fisicamente piantato in terra“, conclude.

Poi toccherà alle strade poderali, alla costruzione delle condotte per l’aria compressa e alla realizzazione della rete tecnologica, che per ogni olivo prevede anche un QR code riportante le caratteristiche della singola pianta.

L’aria compressa – precisa Andrea Sisti – fa parte della dotazione tecnologica dell’impianto ed ha un doppio scopo: alimentare scuotitori e forbici, evitando all’azienda tanto di consumare energia (il compressore è infatti alimentato da pannelli fotovoltaici, ndr) quanto di entrare con mezzi pesanti nell’oliveto, e fornire, quando serve, i getti d’aria necessari ad arieggiare le chiome delle piante per favorire l’allegagione qualora la subirrigazione non fosse sufficiente“.

Quest’impostazione imprenditoriale, che implica di partire da zero e quindi di disegnare la nuova impresa attorno a progetto e il progetto attorno all’idea di impresa, è affascinante e, in agricoltura, se si eccettua la punta di diamante del vino, decisamente rara. E un’impostazione che richiede anche condizioni iniziali – disponibilità di terreno, possibilità di intervento concreto, prospettive economiche – piuttosto inusuali nel mondo agricolo. Ma che in certi settori pare essere l’unica strada percorribile.