Si è parlato di nuovo di teoria e di massimi sistemi, ma senza assaggi comparativi e dimostrativi pubblici tra olii di qualità e prodotti industriali, che sarebbe stato l’unico modo per far risaltare al palato del consumatore le reali differenze.
Non ho perso tempo a contarli con precisione, ma stando al catalogo ufficiale erano una cinquantina (su 346 espositori presenti a Taste 2016, la fiera dell’enogastroalimentare di nicchia chiusasi ieri alla Leopolda di Firenze), quelli che producono o propongono olio extravergine. Prodotti di qualità e di alta gamma, è ovvio. E pertanto anche di prezzo elevato, almeno in confronto all’extravergine industriale venduto nei supermercati.
Ecco, è possibile, mi chiedo – visto che l’argomento è di attualità permanente continua e quindi nemmeno avrebbe avuto bisogno della sovraesposizione mediatica di questi giorni, legata alla questione dell’olio tunisino, per accendere i riflettori sul tema – che in quel contesto a nessuno degli organizzatori sia venuto in mente la cosa più semplice, esplicita, dimostrativa, trasparente, convincente, comprovante da fare per dimostrare il tanto predicato scarto di qualità tra certi extravergini ed altri: cioè allestire un bel panel didattico di degustazione comparativa alla cieca, accessibile a tutti e magari anche a pagamento, tra i prodotti degli espositori e un certo numero di campioni di pari prezzo o tipologia, comprati però sugli scaffali della gdo?
Sarebbe stato un evento che per metodo avrebbe fatto clamore e, soprattutto, sarebbe risultato estremamente formativo per il consumatore. Quello che vagheggia sì di qualità, ma poi compra l’extravergine da 3 euro senza accorgersi che in bocca (sottolineo in bocca, perchè alla fine l’olio è una cosa che si mangia) fa schifo.
L’idea mi è venuta seguendo sabato, con un certo sconforto, il “ring” (insomma la tavola rotonda) allestita a Taste sotto il titolo “Come difendere l’olio extra vergine italiano da truffe, adulterazioni e campagne denigratorie all’estero?“. Coordinati dal collega Davide Paolini, erano di scena il colonnello Amedeo De Franceschi (comandante del Nucleo Agroalimentare Forestale – NAF), Piero Gonnelli (presidente dell’Associazione Italiana Frantoiani Oleari), Maurizio Pescari (giornalista di Teatronaturale.it), Michele Bungaro (responsabile relazioni istituzionali di Unaprol) e il celebre cuoco Gianfranco Vissani.
Il mio sconforto non era legato tanto al tenore degli interventi, molti dei quali condivisibili anche se fatalmente generalisti e a volte un po’ faziosi. Bensì al fatto che, come sempre accade, si è parlato tanto di teoria e di principi, di politiche olivicole e di treni perduti, ma non di gusto, olfatto, sapore.
Insomma si è caduti nella classica trappola dialettica (abilmente tesa da alcuni dei conferenzianti, diciamolo) tendente a far credere che alla fine la qualità dell’extravergine è determinata solo dalla sua origine chimico/formale (risultante cioè dall’incrocio di analisi, varietà, luogo di provenienza delle olive e/o di assemblaggio, certificazioni e bollini vari) e non anche, anzi direi soprattutto, dalla sua bontà sostanziale.
Invece il punto focale secondo me era e rimane proprio questo: coma mai, al di là di tante chiacchiere, moralismi, complotti, dop, igp, truffe, Coi, corruzione, sequestri, analisi di laboratorio, poi alla fine la gente compra schifezze senza rendersi conto di comprarle e poi, evidentemente soddisfatta, le ricompra perfino (come già mi chiesi qui tempo fa)? A che servono la divulgazione e la propaganda se poi l’anello debole è proprio chi l’extravergine lo consuma?
Quasi quasi, l’anno prossimo una degustazione comparativa pubblica la organizzo io, a Taste o altrove.
E vediamo che succede.