Mica è vero che su certe cose è stato già scritto tutto, detto tutto, letto tutto.
Il tempo che scorre, i titoli che si accumulano, il senno di poi sono anzi fonti inesauribili per nuove chiavi di lettura anche di ciò che ieri poteva sembrare consegnato alla fissità della storia.
“Live at the Main Point, 1975” ad esempio – il celeberrimo bootleg ricavato dall’esibizione tenuta da Bruce Springsteen e la E Street Band il 5 febbraio di quell’anno lontano, considerata dai fan una delle più grandi performance del Boss che si ricordino – riaffiora oggi su doppio cd in quello che, distrattamente, potrebbe sembrare solo l’ennesimo, seppur goloso regalo per appassionati incanutiti e un po’ nostalgici.
Al quadretto non manca nulla: copertina giallina con grafica d’annata, foto vintage, una spruzzata di musicisti perduti (la violinista israeliana Suki Lahav, rimasta nel gruppo solo un semestre), cover potenti di canzoni un po’ oscure, versioni acerbe, ma già graffianti, di pezzi-simbolo della tradizione springsteeniana come “Jungleland” e di “Thunder Road” (nel disco chiamata ancora “Wings for wheel“), che avrebbero trovato poi forma compiuta e gloria su “Born to run“, l’album che proprio di lì a pochi mesi avrebbe consacrato Bruce sul proscenio internazionale.
E invece, a trentasei anni di distanza (mamma mia!), la registrazione si rivela non solo capace di destare le stesse straordinarie emozioni di sempre, ma anche di suscitare considerazioni nuove e ulteriori.
Scuote e a tratti perfino sbalordisce, ad esempio, la naturalezza con la quale, in un’epoca in cui secondo la vulgata critica più ortodossa il talento springsteeniano sarebbe stato ancora incompiuto, il leader e la band dimostrano invece di saper padroneggiare il materiale musicale, colpisce la duttilità con la quale riescono a reinterpretarlo, manipolandolo, dilatandolo, mutandone con disinvoltura estrema i toni, gli umori, e le cadenze secondo le necessità dello spettacolo. La romantica “Incident on 57th Street” diventa così una ballata intrisa di malinconia, “Kitty’s back” attinge direttamente agli echi delle big band e dei palcoscenici di Broadway. E non si parla qui di mera capacità tecnica, o di pur consumato “mestiere”, bensì di assimilazione profonda, di condivisione pura del “senso”, di assoluta empatia con il contesto. Un contesto oltretutto, quello del Main Point di Filadelfia, tutt’altro che facile per via del pubblico tradizionalmente esigente, l’atmosfera intima, la necessità di contemperare feeling e intrattenimento.
Su tutti, a parte la figura di un Bruce rauco e ancora magicamente sospeso tra l’insuperata inclinazione “wild & innocent” e la piena maturità, giganteggia il basso spesso sottovalutato di Gary W. Tallent, ora ingegnere e ora architetto, ora architrave e ora fregio di un suono galoppante, dilagante, luminoso e chiaroscurale al tempo stesso. Vero e proprio sutor, attento e compiaciuto regista che svisa, raccorda, sostiene, rilancia, Tallent è l’emblema di una E Street Band ancora in divenire (manca Miami Steve Van Zandt) ma con alle spalle una coesione già grande.
Era tutto ovvio, tutto noto?
Non credo. Quando il mito si appanna, o si offusca per l’effetto inesorabile del tempo, lo spirito critico può agire con più sottigliezza, a volte perfino con impietoso puntiglio. Ma in questo caso l’analisi entomologica non toglie un grammo di grandezza a questi solchi vecchi oltre un terzo di secolo. E diventa, ribaltando i fattori, la riprova di una grandezza limpida, consolante, priva di incrinature, capace di restituire certezze oltre l’ombra di qualsiasi amore incondizionato da fan.
E se qualcuno avesse dei dubbi, ascolti qui. Poi ne riparliamo.