Ho a lungo riascoltato, in un piovoso pomeriggio invernale, “Hold out”, il suo sesto album. Che si è confermato nei suoi limiti, ma anche come uno dei simboli della difficile fase di passaggio tra suoni e decenni fatali.

Soundtrack: “Of missing persons“, Jackson Browne.

Ho passato metà pomeriggio di ieri ad ascoltare “Call it a loan” e “Of missing persons” di Jackson Browne, con lo stato d’animo con cui si rileggono pagine antiche e un po’ dimenticate, ma che subito ti accorgi aver lasciato in te, sebbene impercettibilmente, molto.
Ho assai amato Browne e non solo per ragioni generazionali. Considero tuttora “Late for the Sky” il primo della fatidica lista dei dischi che porterei su un’isola deserta.
Ma “Call it a loan” e “Of missing persons” vengono da “Hold out“, l’lp che consacrò l’artista a una sorta di accettato mainstream, al grande successo popolare. O almeno a quello che allora, giugno 1980, mi apparve tale. Ci aspettavamo tanto, arrivò solo qualcosa.
Le ragioni per le quali trovai criticabile, anche se non proprio brutto, “Hold out“, furono essenzialmente tre.
La prima è che non avevo digerito il boom planetario e nazionalpopolare di “Running on empty” e non sopportavo che le ragazzine ballassero “Stay” sulle note di un autore sensibile, lirico e di nicchia come, almeno per il pubblico italiano, era stato fino ad allora Jackson Browne.
La seconda è che “Hold out” si apriva con una canzone dal titolo (e dal suono) equivoco come “Disco apocalypse“: si aveva un bel dire che era sberleffo e parodia, ma il sound era quello aborrito della dance/disco, aborriti synth inclusi.
La terza è che, con quell’album, anche JB, o meglio la sua produzione, si erano adeguati a un ritmo metronomico e martellante della batteria (se n’ebbe riprova mesi dopo, quando anche “The River” di Springsteen tradì ritmiche a volte troppo disinvolte) che avrebbe contrassegnato in chiave commerciale il decennio a venire.
Hold out è stato insomma l’ultimo disco che ho almeno in parte apprezzato di Browne, mentre non ho mai gradito le opere successive e nemmeno il suo tardivo ritorno a una musica sociale quanto vogliamo, ma troppo infarcita di slogan e poco di poesia.
Riascoltare dopo tanto tempo certe canzoni, soffermandomi sui testi e su certi ricami del mai abbastanza elogiato David Lindley, mi ha fatto ripensare molto alle qualità dell’lp e a quella stagione di trapasso tra i ’70 e gli ’80. Ci ho ritrovato certe residue ma inconfondibili sonorità Asylum e una mano delicata che, tra alti e bassi, affiora dietro lo strato di coppale stesa da Greg Ladanyi.
Nella discografia di JB questo rimane un disco minore, certamente meno fulgido, ma in qualche modo anche emblematico, quasi sovramaturo, riflessivo, adulto di un artista risultato incapace al momento decisivo, come quasi tutti, di mantenere alta la tensione creativa coll’avanzare del tempo, dell’età e del conto in banca.
Ciò che gli è mancato forse, e di cui il disco è spia, è stata la capacità di evolversi da ciò che era prima in un artista diverso, diciamo pure diversamente grande, la cui carriera potesse essere poi valutata, oggi o comunque dopo, nella sua globalità. Ho invece la sensazione che, a un certo punto, Browne si sia semplicemente fermato, senza riuscire nè a crescere, nè a cambiare.
Ma “Call it a loan” e “Of missing persons” restano straordinarie canzoni.