Soundtrack: “Hazey Jane II“, Nick Drake.

E’ morto oggi, nel giorno del suo compleanno, con una fine inattesa e annunciata al tempo stesso, fedele all’immagine di personaggio che forse cercava di essere e che forse non era. Critico, giornalista, produttore, conduttore radiofonico, ha lasciato un segno importante nella difficile opera di divulgazione in Italia di un rock’n’roll inteso come musica adulta. Ci frequentammo. Poi ci perdemmo. So long.

 

Caro Ernesto (ma in quanti sapevano che ti chiamavi Carmine?),
non avevo mai digerito certi tuoi comportamenti di un quarto di secolo fa. E ancora meno il tuo dribbling un po’ furbesco quando, anni orsono, pensai di offrirti l’opportunità di riabilitarti. Non volesti coglierlo, quel gesto, e la cosa mi irritò ulteriormente. Ma a pensarci bene era un atteggiamento perfettamente depascaliano e quindi, a suo modo, coerente.
Il tuo del resto non era un carattere facile. Non eri simpatico. Non facevi nulla per esserlo. Infatti parecchia gente ti scansava e tu ne portavi segretamente i segni. Lo so, perché fosti tu a confessarlo in un remotissimo pomeriggio di via Vittorio Emanuele. Lo confessasti a me, che ti fui e forse ti sono rimasto, nonostante tutto, profondamente amico.
Così stamattina, quando, all’oscuro del pregresso, ho saputo che te n’eri andato, ci sono rimasto di sale. Con buona pace dei dissapori e di una frequentazione interrottasi da tempo immemorabile.
Perché nonostante i tuoi spigoli, i tuoi difetti, certi tuoi insopportabili opportunismi, avevi personalità. E avevi cuore. Avevi una sensibilità non comune. E piena consapevolezza di appartenere alla ristretta cerchia di persone che della musica sanno cogliere certe sfumature e certe interrelazioni interdette alla maggioranza della gente, esperti e appassionati inclusi.
Con te, devo ammetterlo, ho condiviso anni ed esperienze cruciali. Un periodo abbagliante, fulgido, inebriante, cadenzato dai riti di passaggio, dai mondi che si aprono, da antiche ma vaghe intuizioni che di colpo diventano immagini nitide.
Radio Luna Firenze, la prima Stereonotte, i concerti prolungati fino all’alba a parlare di musica (i ricordi mi arrivano a folate: Lou Reed e Peter Gabriel, i Devo, i Talking Heads, i Clash, Iggy Pop, Taj Mahal, i Tubes, Patti Smith ovviamente, il grande spartiacque, PFM, John Martyn, Bruce Cockburn, Weather Report. E Todd Rundgren sul pier a NY, dopo quell’incredibile notte passata sul pavimento a casa di Gregg, bloccati dal grande sciopero dei voli…), i pomeriggi sepolti tra i vinili di Contempo, i badge delle trasmissioni (Nightout, Nine Tonite…) fatti a mano con trasferibili e carta millimetrata, i Lightshine, le interminabili giornate d’estate trascorse tra i dischi, per i dischi, con i dischi. “The River” trasmesso in anteprima italiana con l’lp arrivato direttamente dagli Usa col Dhl. La puntata di FM a Radio Luna tutta dedicata alla morte di John Lennon. Le scalette, i palinsesti.
Ridevi spesso del mio parlare forbito. C’era sintonia tra noi. Stessa lunghezza d’onda.
Poi cambiasti registro, peccato.
Il tempo è passato senza che – lo so, l’ho sempre saputo – tra me e te si interrompesse il filo di un qualche reciproco rimpianto, ben nascosto sotto una crosta di principi e di orgoglio.
Ora che sei morto (morto? Parola strana, impronunciabile adesso) non potrò più chiederti, come prima o poi cullavo l’idea di fare, se alludevi a me tempo fa quando, intervistando Robert Kirby a Fiesole a proposito del rapporto tra Nick Drake e Joe Boyd, mi cercasti con gli occhi tra il pubblico rievocando con uno strano tono di voce la temperie dei giorni in cui “te e quelli come te che tanti anni fa compravano i dischi”.
Sì, Ernesto, a pensarci bene anche tu qualche gesto di riappacificazione l’hai fatto. E io non ho voluto coglierlo.
Ma dopodomani ci sarò anch’io al tuo funerale. Incredulo, stranito. Insieme a tanta altra gente che con te ha condiviso quell’amore profondo e totalizzante che solo il rock and roll sa spiegare.
Mi dicono che la tua salute scricchiolasse da tempo, ma che non te ne sei curato. Come quel Jack immaginario – ricordi? – di cui scrivesti una sorta di epistolario, vagheggiandone rauchi e un po’ posati monologhi teatrali. E chissà se l’idea di andartene così, come un maledetto giornalista rock, era davvero il tuo desiderio o solo lo specchio di una tua segreta voglia di apparire.
Il più bel ricordo che ho di te è quello di una notte in studio di incisione da Sergio Salaorni, saranno quasi trent’anni fa: tu al piano elettrico a suonare una canzone che pareva destinata a non finire mai. Si chiamava “Lovers’ rock”. Un po’ Michael McDonald e un po’ Wolfman Jack. Chissà che fine ha fatto. Noi siamo sempre qui. Tu c’eri fino a ieri a mezzanotte. Cinque minuti prima del tuo compleanno.

“If songs were lines in a conversation / the situation would be fine”. N.D.

Happy trails, Depa.

Stefano