Il paesaggio? Un bene non riproducibile dalla concorrenza”. Altro che “italian looking”. Un volano di sviluppo di cui, con incentivi e norme giuste, si potrebbero recuperare 10 milioni di ha. Ma il rischio di ritardi e strumentalizzazioni è alto.

 

Si è concluso giorni fa a Firenze il primo Congresso dei Paesaggi Rurali Storici Italiani, pronti a riunirsi in associazione entro febbraio del 2022. Un nuovo organismo che si porrà come interlocutore istituzionale del governo nazionale e di quello europeo. “L’obiettivo – annunciano – è fare pressing politico in una fase strategica per l’agricoltura italiana”. Sono ventisette, tutti iscritti all’apposito Registro Nazionale. Si va “dai vigneti eroici della Valtellina agli oliveti scavati nella roccia che hanno fatto da scenografia a Sofia Loren nel film “La Ciociara”, passando per i castagneti della Corona di Matilde (di Canossa)“.

Entro fine anno – proseguono – il Ministero delle Politiche Agricole  si è posto l’obiettivo di strutturare una bozza del nuovo piano nazionale di sviluppo rurale in vista  della nuova PAC, la Politica Agricola Comunitaria: questo è quindi il momento giusto per porre attenzione sui paesaggi rurali storici o se ne riparlerà tra sette anni. E allora potrebbe essere già troppo tardi”.

Eppure la vera notizia è un’altra. Anzi, sono due.

La prima è che il reale patrimonio del paesaggio rurale italiano è ancora ben nascosto sotto la vegetazione che, in settant’anni di fuga dalle campagne, ha ingoiato una superficie mostruosa di terreni, circa la metà di quelli  già coltivati, plasmati, mantenuti per secoli dai contadini : 10 milioni di ettari, praticamente quattro volte la Lombardia. In Toscana sono 380mila ettari, più o meno la metà dell’Alto Adige.

La seconda è che gran parte di essi potrebbero essere recuperati e riportati alla luce, in un circuito virtuoso capace di conciliare ambiente, società e economia.

Come?

Da un lato, rimuovendo le norme vincolistiche che, avendo per scopo una malintesa salvaguardia della “natura”, lo impediscono riservando sanzioni penali a chi tenta di ripulire i suoli classificati come “forestali” non perchè boschivi, bensì perchè, in qualche decennio di abbandono, si sono semplicemente coperti di macchia e arbusti. Quanto basta però a definirli “saldi” e pertanto non più utilizzabili a fini agricoli.

Dall’altro creando le condizioni socioeconomiche affinchè questi terreni, riportati a coltura, possano costituire una fonte concreta di reddito per chi li conduce e non rischino quindi un secondo abbandono.

Sarebbe un recupero importante non tanto e non solo sotto un profilo strettamente storico o estetico, che comunque avrebbe il suo peso, bensì soprattutto sociale e ambientale: riconvertire significherebbe restituire alla loro destinazione naturale, protrattasi per millenni, terreni in grado di dare, contemporaneamente, valore economico, produzioni di qualità, presidio antropico e idrogeologico a quelle parti d’Italia rese marginali, e perciò fragili, dall’industrializzazione e dall’agroindustria.

Punti su cui Mauro Agnoletti presidente del Congresso e uno dei massimi esperti mondiali della materia (nonchè professore di Pianificazione dei sistemi agricoli e forestali e Storia ambientale presso la Scuola di Agraria dell’Università di Firenze, presidente dell’Osservatorio del Paesaggio della Regione Toscana, coordinatore scientifico del Registro dei paesaggi rurali nell’ambito delle politiche per lo sviluppo rurale presso il Ministero dell’Agricoltura, del comitato scientifico del Programma Mondiale della FAO sul patrimonio agricolo. Uno che ha collaborato con UNESCO, World Bank, Consiglio d’Europa e Convenzione per la Diversità Biologica) ha idee chiarissime.

Contrariamente a quanto si pensa – spiega – l’Italia è tutt’altro che un paese in deforestazione. Dal dopoguerra a oggi siamo passati da 5 a 11 milioni di ettari di superficie forestale, gran parte della quale frutto dell’inselvatichimento di terreni agricoli. Riportarli in produzione è una sfida difficile, ma strategica. Penso ovviamente a un’agricoltura a basse emissioni e in grado di dare agli agricoltori una reale remunerazione, la mancanza della quale fu la prima causa di fuga. E’ un movimento che deve partire dal basso e da provvedimenti concreti: la nuova PAC, ad esempio, dovrebbe sostenere e incentivare forme di agricoltura compatibili con l’ambiente e dirette a produzioni di eccellenza, quindi di alto valore aggiunto. Una prospettiva che è complementare alla preservazione del paesaggio rurale. Il quale – ha sottolineato Agnoletti – non è solo “natura”, ma qualcosa di più. Le norme oggi in vigore ostacolano il recupero e la valorizzazione del paesaggio rurale: abbiamo una legislazione vincolistica che scaccia l’agricoltura più tradizionale e meno meccanizzabile, quella che è esercitata nei luoghi più difficili o sfavorevoli, i quali però sono anche quelli che generano paesaggi e produzioni di maggiore qualità“.

Del resto il Registro Nazionale dei Paesaggi Storici costituisce già un esempio a livello mondiale ed è uno strumento decisivo per ottenere i riconoscimenti internazionali: come quelli di Fao e Unesco. “Anche la Cina si è ispirata a noi per la creazione di un proprio repertorio dei paesaggi rurali. E i irisultati sono stati ottimi“, conclude.

In che modo si può evitare, però, che il messaggio di un valore complesso come il paesaggio rurale italiano si trasformi in un banale strumento di marketing nelle mani dell’industria globale e che il termine non finisca per diventare uno slogan buono per tutti gli usi, come già accaduto per espressioni come “tipico“, “eccellenza”, eccetera?

Agnoletti non ha dubbi.

Il pericolo è effettivamente grande e la questione è difficile, perchè è naturale che, nel mondo di oggi, il mercato tenda ad appropriarsi a fini commerciali di una realtà affascinante come i nostri paesaggi”, spiega. “Il primo freno per arginare questa deriva è che anche per il grande pubblico il paesaggio non rimanga solo un valore estetico, quindi mediatico e pubblicitario, ma venga ben spiegato a chi lo osserva. Il secondo è che non diventi appannaggio di grandi compagnie, ma rimanga un patrimonio diffuso tra le maglie di quel mondo agricolo che, in fondo, l’ha storicamente determinato“.

Poi però, mentre rimuginava su queste parole e sulle prospettive che si potrebbero aprire, il vostro cronista riceve un messaggio che, senza troppi preamboli, lo invita a collegarsi a un sito e a caricare lì le foto più belle della zona in cui vive, in modo che esse possano essere selezionate e, se meritevoli, finire stampigliate sui vasetti della crema di nocciole più famosa del mondo. “Una pubblicità del nostro territorio che non costa nulla“, sottolinea puntiglioso il mittente.

E l’affare s’ingrossa.