Chiude stasera, definitivamente, la cucina della Locanda Toscani da Sempre di Stefano Frassineti, a Pontassieve. E’ stato per anni, non solo secondo il sottoscritto, il luogo di conforto di chi ama mangiare bene senza inseguire le fanfaluche. Ci mancherà, molto.
Scrivere questo post è per me una liberazione, anche se un po’ malinconica.
E’ una liberazione perchè per anni, visti i miei rapporti di amicizia e di collaborazione col patron e compagno d’avventure podistiche Stefano Frassineti, per evitare accuse di interessi privati in atti d’ufficio non ho potuto mai buttare giù una riga professionale su un ristorante che invece “in borghese” non solo ho frequentato intensamente, ma che ho considerato tra i più solidi, affidabili, godibili, raccomandabili della Toscana di mezzo. Insomma ci ho trovato sempre tutte quelle cose che spingono qualcuno ad andare a cena fuori non per fare entomologia gastronomica, come spesso capita nel nostro mestiere, ma per perseguire il sano godimento di chi però non vuole rinunciare al guizzo, all’affondo, o al conforto di una portata così familiare e consolante da sembrarti di casa. Ma più buona.
Dopo vent’anni, insomma, la Locanda Toscani da Sempre di Pontassieve chiude. O meglio chiude la cucina, perchè la locanda anzi si ingrandisce e durerà, si spera, a lungo.
Addio quindi, o magari solo arrivederci, alla saletta “Pellegrino Artusi” che tante volte ci ha visto commensali privilegiati, al giardino coi nanetti e l’orto, a quell’atmosfera scanzonata e un po’ naif che mescolava sostanza e ricerca, arte e crapula. Un po’ come lo chef, un omone buono dal cuore tenero, lettore insonne ed attento, ricercatore e indagatore delle radici culinarie, che amava e ama ancora, ci si augura, improvvisare e inventare tra i fornelli senza mai arrampicarsi – diamogliene merito – sugli specchi della scenografia e di un tecnicismo che serve spesso a fare da paravento per la vacuità.
Dal Frassineti si è sempre “mangiato” nel senso più pieno, rotondo della parola. Nel senso artusiano, direi, di un desinare che non lesina mai sulla quantità ma è al tempo stesso frutto di una cura certosina, di una conoscenza profonda delle materie prime. E che non confonde l’equilibrio con l’equilibrismo. Non è mai stato uno che si risparmia, del resto, lui, da generoso qual è. Come quando si sottopose alla sfacchinata di cucinare, a sorpresa, per il mio compleanno.
Legatissimo alle sue radici e alla Val di Sieve, il nostro è un cultore e diciamo pure divulgatore del bardiccio, il misconosciuto e povero insaccato locale, che ha saputo ammannirci in versioni memorabili, come la più recente, quella farcita col farro.
E stasera, dunque, l’ultima cena.
Sold out da settimane, mi risulta.
Ho preferito non andarci, come ho preferito non andare più a cena lì dopo l’annuncio della chiusura.
Senza per forza vivere di ricordi, mi piace pensare a quel posto come a un ristorante sospeso e a confidare per domani, chissà, in qualche marcia indietro.
In ogni caso, grazie di tutto.
Save the last bardiccio for me.