Morti che scompaiono dalle bare, cadaveri mutilati, personaggi sordidi, tensioni sociali, tombe scoperchiate e una toscanità brutale sono gli ingredienti di un bel noir appena uscito, sul quale spira il vento gelido del primo gennaio fascista fiorentino.

Questa è la recensione di un romanzo che puzza di cimitero. Di quell’afrore raggelante di umido e di fiori marci che pervade i vicoli e i corridoi di certi cimiteri ottocenteschi, dove le scarpe scricchiolano sotto la ghiaia e l’occhio vaga tra fregi liberty di sepolcri monumentali e nomi desueti di morti dimenticati, resi illeggibili dal tempo e dal muschio.
Anche il linguaggio del romanzo è gotico. Come è gotica l’atmosfera che vi si respira.
L’atmosfera gelida dell’inverno del 1922/23, quando la storia si svolge.
Una sensazione di freddo e di spoglio che ti accompagna pagina dopo pagina e non ti si leva più di dosso, aiutata da uno stile di scrittura barocco fino ad essere, talvolta, didascalico. E pure in questo, alla fine, gelido.
Sarei bugiardo però se negassi che questo bizzarro noir – immaginato nella Firenze turbolenta, ondivaga, quasi stranita, del fascismo della prima ora – mi ha preso. Devo anzi ammettere che mi ha preso proprio.
E non è cosa da poco, se si considerano le oltre 500 pagine e una trama complessa, piena di parentesi e di elastici narrativi, dialetti e accenti che si intersecano. Con l’aggiunta di un pathos generale impregnato quasi di dolente rassegnazione, una sorta di sofferenza sorda e incombente, dell’incomunicabilità reciproca e invincibile che fa da mastice tra i tanti personaggi. Destinati non a caso, al termine della storia, a rimanere quello che erano all’inizio: dei solitari. Solitari e soli.
E’ un romanzo di molta morte e di poco amore – anzi di nessun amore, se non quello filiale – quello de “I Marmi” (Narcissus Editore, 511 pagine, 12 euro), prima opera letteraria del duo di amici fiorentini Carlo Campani e Paolo Cecchini, avventuratisi nell’impresa quasi per caso, a mezz’età, e rimasti capaci di portare avanti il libro con un lavoro a quattro mani durato molti mesi.
Un lavoro nell’economia del quale, per ammissione degli autori stessi, la prosa di Campani finisce per avere una netta prevalenza quantitativa e, soprattutto, qualitativa.
E’ grazie alla fluidità di questa, che in alcuni punti tocca una facilità e una scorrevolezza realmente apprezzabili, e in ciò senza mai nuocere alla tensione del racconto, che il libro si fa apprezzare nonostanze tutti i suoi spigoli. Riuscitissime, ad esempio, le parti in cui i due protagonisti – il disilluso commissario Settembrini e la fascinosa vedova Giunti – scramuzzano fra loro in bilico tra il battibecco e il corteggiamento, sullo sfondo di una Firenze distratta e indolente. E belle anche certe descrizioni d’atmosfera, quasi vedutistiche, che dimostrano una conoscenza minuziosa dei luoghi e la capacità d’intercettarne il respiro. Felice, alla fine, anche il sottile gioco di traforo che rende possibile l’incastro dei tanti vernacoli a cui sono affidati i ritratti dei diversi personaggi, ognuno ben scolpito nella propria dimensione senza scadere mai, come c’era il rischio che accadesse, nel caricaturale. Così come non è mai caricaturale il colto eloquio fiorentino, sebbene spesso esplicitamente autocompiaciuto, con cui Campani e Cecchini si esprimono.
Meno felici invece alcune parentesi che, mentre cercano di inseguire il filo di un ricercato grandguignol, trascolorano a volte nel grottesco. E certe forzature di ritratto che tolgono credibilità e realismo a figure che, viceversa, avrebbero dovuto rimanere più centrali nell’economia del racconto.
Un racconto che, comunque, alla lunga tiene.
E si snoda tra cadaveri che scompaiono e squallide storie di necrofilia, macabri ritrovamenti e donne fatali, velette nere e labari al vento, sottili rimpianti e sordi rancori, ferite mai rimarginate e le cicatrici, fisiche e psicologiche, di un’umanità appena uscita dalla trincea della Grande Guerra.
Come in ogni giallo che si rispetti, il finale è a sorpresa. Ma nemmeno troppo, in fondo.
Prevale piuttosto il sottile velo di rassegnazione che, per l’intero romanzo, sembra pervadere la storia. E che forse è la vera cifra di questo “I Marmi”, scultoreo come un bassorilievo, marmato come la pietra calcarea e coeso come un granito fatto di granuli taglienti. A volte abrasivo, a volte pungente.
Io, contro ogni previsione, l’ho letto in fretta.