Giorni fa ho tenuto a Firenze uno dei corsi dell’Ordine per la formazione permanente. Era intitolato in modo esplicito: “Manuale d’autodifesa per la libera professione giornalistica”. Ma, ripensandoci, forse il tema non era chiaro a tutti.

Eravamo il fotogiornalista Guido Cozzi, l’avvocato Stefano Cocchi, il commercialista Alessandro Pescari e io.
Un’idea antica: provare a mettere a disposizione dei colleghi che fanno, o vogliono provare a fare, giornalismo in forma di libera professione, vivendo (cosa fondamentale) di questo lavoro, il patrimonio di esperienza, strumenti, trucchi del mestiere accumulati da me e Guido in quasi trent’anni di freelancing puro per testate di ogni tipo, nazionali e internazionali, cartacee e digitali, scritte, audio, video.
A coadiuvarci sui punti più tecnici, due professionisti di vaglia, entrambi con competenze specifiche in materia.
Il tutto gratis, ovviamente: gratis i professionisti, gratis noi e gratis il corso.
Non sta a me dire se è risultato interessante o, meglio sarebbe, utile.
Spero di sì e in parte lo penso, visti i lusinghieri commenti raccolti alla fine dalla bocca di molti presenti.
Eppure mi è rimasta la sensazione che almeno una parte dell’opportunità sia andata sprecata.
Non per colpa dell’uditorio. E nemmeno mia, in fondo.
Ma per il coacervo di equivoci duri a morire che, come una nebbia, continuano a incombere su questa professione, creando un cortocircuito di malintesi alla sopravvivenza dei quali non si capisce chi abbia interesse (eppure, di sicuro, qualcuno c’è).
Il punto centrale è sempre lo stesso: In Italia la qualifica di freelance viene ancora percepita come una sorta di distintivo, di titolo onorifico, di grado, di mostrina anzichè come la semplice attestazione di una condizione professionale.
Con un’insidiosa appendice: ci si ostina anche a considerare (e quindi a considerarsi) un libero professionista dell’informazione chi in qualunque modo eserciti l’attività, purchè in forma non subordinata.
Insomma, si confondono tuttora i liberi professionisti veri e propri con gli autonomi genericamente detti. Come se essere un autonomo, anzichè un freelance, rischiasse di farti passare per peggiore, o meno importante, o meno prestigioso, o meno “giornalista“.
Marciando furbescamente su quest’antifona, si alimenta così all’infinito la confusione concettuale e sostanziale tra le diverse categorie.
Perchè? Mistero.
Da ciò derivano però, per i singoli, guasti gravi e abbagli colossali: errate posizioni contributive, errate posizioni fiscali, scelte professionali sbagliate, danni irrimediabili all’attività, costi, diseconomie, perdite, sanzioni e quindi, più in generale, una precarietà lavorativa che spesso produce disastri o distrugge carriere promettenti.
Ciononostante, bisogna constatare che qualsiasi idea espressa su quest’argomento, e che è logicamente legata a singole situazioni individuali, non viene quasi mai presa in sè, ma intesa spesso come una generale sentenza morale destinata a smentire tutte le altre. Pertanto anche a diminuire il prestigio dei sostenitori dell’idea presuntamente soccombente.
Insomma, almeno all’inizio del corso non sono riuscito a incanalare la discussione sul versante più pragmatico per il quale la giornata era stata concepita (quello delle accortezze professionali e dei suggerimenti pratici per la gestione dell’attività), lasciando così che buona parte del discorso rimanesse a stagnare su questioni di principio o di teoria che, visto il contesto e le finalità, non erano di vantaggio per nessuno.
Qualcuno mi ha, forse a ragione, fatto notare che non tutti i presenti erano tra i direttamente interessati a una trattazione di quel tipo. E che avrei dovuto accertarmi di questo prima di cominciare.
Gli ho risposto che magari era vero, ma che per come il sistema dei corsi è organizzato noi relatori non possiamo nè filtrare le iscrizioni, nè tantomeno conoscere in anticipo i nomi o il modo dell’attività professionale degli stessi.
Così il cerchio si chiude: c’è un equivoco che aleggia, nessuno lo dissipa e anzi lo alimenta, la gente è confusa, pensa di essere una cosa senza sapere di essere un’altra e quindi – in buona fede – si trova anche a perseguire indirizzi fomativi sbagliati.
Come avere la polmonite e curarsi contro l’ulcera.