Il vignaiolo gigliese condannato per aver liberato la vigna dagli sterpi invoca l’introduzione, in ogni legge “agricola”, dell’eccezione già sancita per i vigneti “eroici o storici”: casi particolari, cioè, in cui la norma può essere disapplicata. Ma stavolta dissento. Ecco perchè.
Un sacco di lettori ha seguito, qui, la storia surreale del viticoltore gigliese, anzi dell'”abusatore edilizio” Francesco Carfagna, condannato mesi fa a 11 giorni di carcere e 8mila euro di multa per aver tolto dal suo vigneto, senza chiedere prima il permesso, un po’ di sterpi.
La cosa ha fatto clamore e sollevato un grosso dibattito attorno ai meriti morali e alle necessità di tutela della cosiddetta “viticoltura eroica“, cioè quella esercitata in condizioni ambientali estreme. Una vicenda approdata addirittura in Parlamento, con due interrogazioni al ministro Martina.
Niente da eccepire sul principio, ovviamente.
Ma c’è un ma.
In una lettera inviata ai media e agli amici, Carfagna chiede pubblicamente al legislatore di riconoscere l’eccezionalità, anche o soprattutto “culturale“, di certe situazioni come la ratio che giustificherebbe una serie di deroghe. Deroghe da concedere agli “eroici” rispetto alle leggi vigenti in materia di paesaggio e di suoli. In alternativa, ma sempre in base all’assunto dell’eccezionalità, Carfagna chiede l’applicazione, all’interno dei parchi (la sua azienda si trova in quello dell’Arcipelago Toscano), delle norme più “morbide” riconosciute agli agricoltori attivi in territori della regione non vincolati.
Capisco e condivido il principio, ma dissento – e con decisione – da questa impostazione.
Non sono d’accordo cioè con la teoria dell’eccezione.
Intendiamoci, dal suo punto di vista (e pure dal mio) di ragione, Carfagna, ne ha da vendere: si è visto condannare per aver estirpato dalla sua proprietà un po’ di macchia cresciuta lì in vent’anni d’abbandono (dopo secoli di coltivazione) ma che, per l’ineffabile legge italiana, era formalmente diventata “bosco”.
Ma come, si chiede lui, uno si spacca la schiena lavorando la terra a mano (“il rumore della motozappa dà noia alle viti”, ipse dixit), tira su sempre a mano i muretti a secco, tra mille difficoltà recupera qualcosa di alto valore storico, paesaggistico e culturale e poi deve pure sentirsi condannare per abuso edilizio?
Andrebbe acquisita in ogni legge agricola, sostiene quindi (ed ecco su cosa dissento), la fattispecie di “eccezione culturale” già sancita dall’art 7 della legge 238 del 2017 per i vigneti “eroici o storici”: una serie di circostanze in cui, cioè, la norma può essere disapplicata in virtù delle particolari caratteristiche del caso. Caratteristiche culturali, nel frangente.
No, non sono d’accordo.
Questo è il paese delle speciosità inutili e spesso dannose. La proposta, se accolta, non farebbe che alimentarle.
Non sono infatti le eccezioni che vanno individuate. Sono invece le norme sciocche, o assurde, o ridicole, o demagogiche che ci attanagliano e ci soffocano che andrebbero abrogate. Perché per quanto sbagliata possa essere una norma, quando c’è, essa va applicata, come il suo caso dimostra. Anche se poi le stesse autorità che la applicano se ne dissociano, ne ammettono la surrealità e se ne scusano.
E’ il tipico grottesco italiano: regole scritte in base alla teoria o a esigenze che non sono più tali, che poi, contro ogni logica, trovano inesorabile applicazione pratica, provocando danni irreparabili. Come le leggi marziane che, con la pretesa di difendere il “bosco” (nozione vacua: esistono casomai i boschi in cento diverse sfumature e tipologie), perpetuano l’abbandono di terre che boscate non lo sono state per millenni ma che ora, per via di quei vincoli, mai più nessuno potrà recuperare. E di fatto le trasforma in una sterpaglia eterna, con buona pace della tutela del paesaggio, dell’assetto idrogeologico, eccetera eccetera.
Dio solo sa quanto io sia nemico di speculatori, devastatori, ruspatori, palazzinari, scassatori e compagnia cantando. Queste sono le vere eccezioni da sanzionare, non chi fa agricoltura. Ogni tipo di agricoltura, aggiungo, e non solo quella “eroica”. Perché oggi la funzione sociale dell’agricoltura collinare e montana, divenuta ormai eroica quasi a prescindere, è un valore acquisito e va difeso comunque dal rischio di un collasso sempre più probabile. Già si chiede agli agricoltori di fare, a loro rischio e spese, i giardinieri della comunità a discapito dell’attività di impresa, che sarebbe la vera natura dell’agricoltura moderna.
Che senso avrebbe, quindi, ritagliare “eccezioni culturali” in un settore che già di per sé è marginale ed eccezionale, in enorme difficoltà e con scarse prospettive? C’è differenza tra condannare te se tagli quattro arbusti al Giglio e un altro se prova a rimettere a coltura un paio d’ettari di campi acclivi coltivati dal babbo e poi abbandonati per scarsa resa e pochi guadagni (causa diretta della fuga in atto dalle campagne)? Non è che è proprio questo lucchetto normativo la turbina che raddoppia la velocità della fuga e dell’abbandono dei suoli? Abbandono che chiama ulteriore abbandono?
Ecco perché, paradossalmente, dissento dall’idea delle eccezioni.
L’agricoltura va salvaguardata con regole giuste, ragionevoli, serie ed applicate con rigore e senza pietà ai veri abusi.
Quindi l’estensione ad ogni fattispecie agricola dell’art 7 della legge 238/2016 che tutela i vigneti storici è certamente un bene, nel breve periodo, perché recepisce una necessità ovvia e immediata. Ma così facendo finisce per estendere anche il novero delle eccezioni. E questo, nel lungo periodo (e l’agricoltura è per definizione un’attività di lungo periodo), è una iattura.