Tu chiamale, se vuoi, marchette. Ma non sono marchette, bensì il frutto di una sofisticata evoluzione del meccanismo in cui, per passaggi progressivi e indolori, credi di fare il giornalista e ti ritrovi autore di pubbliredazionali. Cioè esecutore di un contratto commerciale tra l’editore e il committente. Nel quale, però, nome e faccia sono i tuoi.

Il giornalismo d’inchiesta – sottolineava tempo fa il brillante Stefano Liberti, della redazione esteri del “Manifesto”, chiamato dalla Fondazione Montanelli di Fucecchio (qui) a illustrare (qui) ai giovani aspiranti colleghi le prospettive della professione – soffoca, per mancanza di mezzi e di interesse a finanziarlo”.
Pura verità. Da un lato, del resto, oggi l’informazione si mescola sempre più con l’intrattenimento, generando quel giornalismo-frankenstein detto infotainment: insomma la notizia da divano e popcorn. Dall’altro, il giornalismo d’inchiesta costa: costa ai giornali, e quindi agli editori, che devono inviare i giornalisti; e costa ai giornalisti, che devono impiegare a profusione tempo, e quindi altro denaro, per realizzare i loro reportage.
Per questo motivo – con le solite eccezioni di certi superinviati e di certe aziende, che godono di budget illimitati (dei quali sovente non si vergognano di approfittare) – da sempre o quasi editore e giornalista cercano di arrangiarsi, cioè di sfruttare tutte le possibili opportunità per risparmiare e/o di avere il massimo risultato con i pochi mezzi reperibili: passaggi, agevolazioni, gratuità, sconti.
Inevitabile, quindi, che chi dà qualcosa chieda qualcosa in cambio.
Entro certi limiti ciò è normale, comprensibile, perfino giusto, sintomo di disincanto e concretezza, professionalità e realismo. Il limite è costituito ovviamente dal fatto che i “piaceri” o i vantaggi che si chiedono e si restituiscono non possono né devono vincolare in alcun modo la libertà di azione e di opinione di chi, poi, deve scrivere articoli raccontando la verità, senza guardare in faccia a nessuno.
E’ però altrettanto ovvio che tale sistema presta il fianco all’esistenza di una vastissima zona grigia in cui l’accomodamento più o meno tacito, l’indulgenza, certe miopie, certi scambi di favori, certe omissioni, certi compromessi sono all’ordine del giorno. E che in mezzo a questa zona tendano a stare, in posizione concentrica, prima certi settori più o meno edonistici (o ritenuti tali: motori, moda, viaggi, enogastronomia, tempo libero, sport) del giornalismo e poi, a cascata, tutti gli altri legati in qualche modo ad interessi economici (industria, finanza, sanità, etc).
Tale complesso sistema di interdipendenze, contrariamente a quanto tende a pensare l’uomo della strada – convinto, un po’ semplicisticamente, che qualcuno “paga” e qualcuno “vende” un’informazione addomesticata – è però proteiforme, quantomai sfumato, dove la presunta brutalità del compromesso (“dare soldi, avere cammello”) non esiste quasi mai e dove, invece, la gradualità delle situazioni è infinita. Così come sono infinite le vie di composizione dei potenziali conflitti di interesse.
Sebbene possa sembrare il contrario, questa complessità non è la misura della degenerazione del sistema dell’informazione. Di un’informazione “corrotta” insomma. Ma è anzi la riprova del fatto che, se e finchè si vuole, e pur nella effettiva necessità di “ottimizzare” le risorse, oggi è ancora possibile fare informazione corretta e obbiettiva. Basta avere chiaro il senso del limite, saperlo individuare ed imporre. Il che non è sempre né facile, né semplice. Ma qui appunto sta il terreno su cui la professionalità e la capacità del giornalista sono chiamate a misurarsi.
Tutto questo mi è tornato in mente oggi, quando mi è stato comunicato che, da ora in poi, un certo ente offrirà collaborazione ai giornalisti solo dietro garanzia scritta, da parte della testata, della pubblicazione, entro tre mesi, dell’articolo oggetto della medesima collaborazione.
Se queste sono le premesse, sapendo come va il mondo, credo proprio che, al momento di quagliare, verrà chiesta anche una supervisione sugli argomenti trattati e sui contenuti del testo. Il pratica, si pretenderà la stipula di un vero e proprio contratto tra ente e editore (il quale, a conti fatti, sarà ben lieto di accettare) in cui il secondo fornisce al primo un servizio chiamato pubbliredazionale (per i non addetti ai lavori: una pubblicità più o meno camuffata da articolo e piazzata su un giornale). Servizio del quale il giornalista è chiamato ad essere il mero esecutore. Cessando così di fare il giornalista e trasformandosi in copywriter.
Dunque, dove eravamo rimasti a proposito del fatto che il giornalismo d’inchiesta soffoca, per mancanza di mezzi e di interesse a finanziarlo?