Se qualcuno ti studia ma non si accorge, o non crede, che il tuo mestiere è davvero il giornalista, forse bisogna cominciare a domandarsi perchè per l’opinione pubblica siamo divenuti una sorta di categoria virtuale.

 

Tranquilli, stavolta nessuna geremiade sul già acclarato declino della professione, ma solo una semplice notazione nata da una constatazione che mi ha fatto molto (ri)pensare.

Come è noto, o almeno pensavo lo fosse, faccio il giornalista. Lo dichiaro sempre e espressamente, non certo per vanto (di che, poi?), ma per chiarezza e perchè risponde a verità.

Aggiungiamo che, sia qui che altrove, sulle questioni professionali sono abbastanza esposto e che, insomma, anche conoscendomi poco è difficile che sfugga quale sia il mio lavoro.

Almeno finchè via social non ti arriva il messaggio di uno sconosciuto che, riferendosi espressamente alle cose di cui ti occupi di solito, ti propone un acquisto. No, nè soffiate, nè scoop: propone proprio di comprare qualcosa.

Gli rispondo, cortese ma abbastanza perplesso, che di ciò che mi vuol vendere io mi occupo come giornalista e che quindi non solo non sono interessato, ma sono proprio l’interlocutore sbagliato.

La reazione, a sua volta stupita, mi ha parecchio sorpreso.

A spiazzarlo non era stata la mia risposta, ma il fatto che io facessi davvero il mio mestiere, “quel” mestiere. Come se non solo non fosse evidente o conclamato (ripeto: mi ha individuato sui social, dove sono presente quasi esclusivamente in veste e su temi professionali), ma come se fosse strano che uno lo dichiarasse e, ancora di più, che uno lo facesse effettivamente. Sembrava gli avessi detto che ero astronauta, o ammiraglio, o armocromista.

Allora mi è venuta l’idea di provare a guardare la faccenda dall’opposta prospettiva, di mettermi dall’altra parte.

E mi sono domandato: se il tizio non mi ha “visto” per ciò che pur esplicitamente sono non sarà perchè, senza essersene resa conto, la nostra categoria è diventata agli occhi della maggioranza della gente comune un’entità effettivamente vaga, sfuocata sullo sfondo, impercettibile, molto teorica, priva di una sua fisionomia, raccolta sotto un profilo labile e inafferrabile? Insomma quella classica attività a cui di solito è connessa la domanda: “Sì, ma di lavoro vero che fai?“.

Perchè se a un ragazzo giovane, moderno, vispo e intraprendente il nostro mestiere sembra così strano e lontano dalla realtà quotidiana da apparire al massimo “dichiarabile”, ma non praticato e tantomeno tangibile, mi chiedo a che punto di opacità siamo arrivati.

Prima, la nostra categoria soffriva casomai dello stereotipo opposto: l’immagine di uno iperattivo, cinico, che fa domande e scrive sempre, col Borsalino in testa, il taccuino in mano, senza macchia o magari sempre pronto a fare marchette. Ma comunque reale, fisico.

E adesso, invece?

Se rappresentassi la professione, qualche domanda in proposito me la comincerei a fare.

We fade to grey” (cit.).