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scrivere per mestiere

Le fisime sulla deontologia e le foto di bambini morti

Stefano Tesi29 Agosto 2015
scrivere per mestiere5 commenti43 views

Non è nè la prima, nè l’ultima volta che ci si fa la domanda, ma bisogna pagare dazio all’attualità: nell’era dei social senza controllo hanno senso le norme etiche per i giornalisti? E fino a che punto esse sono solo banali espressioni di conformismo?

Sul gruppo “Giornalisti italiani sul Facebook” una collega di nera che personalmente non conosco, Albina Perri, ha postato ieri la seguente domanda: “Ci facciamo duemila, sacrosante, fisime su deontologia, carta di Treviso, privacy e compagnia. Poi apri Facebook e tra una ricetta della crostata all’albicocca e una coscia di Belen ti si piantano davanti foto di bambini morti, su una spiaggia. Con allegato pianto di circostanza. E tutti i nostri discorsi su cosa è pubblicabile e cosa no e cosa è pubblicabile dopo verifica attenta e cosa no finiscono in un secondo in pattumiera. I giornalisti che fine fanno? Che cosa fanno? Sono superati a destra dai Social senza regole? Io sono perplessa e non ho una risposta. Voi?”.
Le ho risposto laconicamente, che “… la risposta te la sei già data da sola: i social non sono giornali e non sono frequentati solo da giornalisti. Non giudico se ciò sia un bene o un male, mi limito a prenderne atto. Ma come giornalista non saprei proprio cosa potrei fare per impedire qualcosa di vietato dalla mia deontologia professionale eppure lecito per chi non appartiene alla mia categoria. FB è come una piazza o un bar: come posso impedire a un avventore o a un passante di sventolare in pubblico immagini raccapriccianti? Certamente non posso, si tratta di due contesti separati“.
Vorrei però sviluppare il discorso, che in rete tende a diventare troppo sbrigativo.
La ratio della norma deontologica che vieta ai giornalisti di “pubblicare immagini violente o raccapriccianti” (l’interpretazione della quale norma, da sempre, dà adito a infiniti dibattiti) era dettata da una circostanza di fatto molto semplice: gli unici che, una volta, avevano i mezzi per diffondere qualunque cosa, immagini violente e raccapriccianti incluse, a vastissime fasce di pubblico erano i giornalisti tramite gli organi di informazione.
Gli altri, al massimo, potevano far circolare fotocopie, mostrare le cose al bar, o fare volantinaggi e affissioni abusivi.
Oggi la piazza, la bacheca, il ciclostile, il muro o il bar sono diventati virtuali e le notizie, vere o false, che circolano lì vanno in un colpo solo a milioni di persone. La realtà ha “superato a destra“, come è stato scritto, l’informazione.
Per qualcuno è un grande passo avanti di democrazia, per altri è il trionfo della disinformazione sul giornalismo.
Sia chiaro: non parlo di giornalismo on line, parlo di rete in generale, cioè (anche) del massimo strumento di demagogia, di controllo del consenso, di manipolazione dell’informazione mai creato.
Come da esso il giornalismo e i giornalisti, messi ai margini non tanto per effetto del rapporto diretto tra fonte della notizia e lettore, ma dalla mancanza di filtri e di controlli sulla veridicità di fonti e notizie medesime, possano difendersi, se non sottolineando e preservando il senso della loro funzione e della loro stessa esistenza, non lo so.
Penso tuttavia che, proprio in tempi di turboviralità, nulla separi la verità dalla fuffa più dell’informazione professionale. Quella cioè fatta da chi ha titoli, deontologia, capacità professionale, responsabilità specifiche e dovere legale di farla correttamente.
Credo che questa sia una grande battaglia da combattere nell’interesse di tutti.
Qualcuno ha alternative da suggerire?
Detto questo, però, mi viene spontanea anche un’altra osservazione. La stessa che mi è emersa irresistibilmente, ad esempio, ogni volta che ho seguito i corsi dell’Ordine sulla deontologia. Ovvero: ma queste carte deontologiche piene di cautele, tutele, eufemismi, perbenismi, buonismi tendenti ad annacquare, neutralizzare, smussare un linguaggio che dovrebbe descrivere la realtà come è e non come si vorrebbe che fosse, ha un senso oppure è solo un segno di adeguamento al conformismo del politicamente corretto?
Non ho difficoltà a dire che per me, pur convinto della funzione e della necessità di regole nell’informazione, la risposta giusta è la seconda.

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5 Responses

  1. 29 Agosto 2015 Claudia Silivestro

    le questioni sono tutte sul tavolo…mantenere un equilibrio tra la necessità di attirare l’attenzione e il rispetto di alcuni limiti è compito peculiare del giornalista. Se il contesto complessivo, però, dei media autoprodotti finisce per alzare l’asticella di “ciò che non si può vedere”, il compito è ancora più difficile. Lettori e utenti di Facebook facciano ciò che credano: al professionista, però, è chiesto qualcosa in più. Che si diano strumenti di comprensione, informazioni e notizie per una lettura migliore della realtà. Piangere sulla foto non basta

  2. 29 Agosto 2015 Stefano Tesi

    Estremizzando un po’, io credo che il problema debba porsi in questi termini: se il “lettore” (non più tale letteralmente anzi, diciamo l’utente) segue i social e/o fonti di informazione non professionali e quindi non garantite dalla professionalità di chi le confeziona, la professionalità e i professionisti a che servono? Anche materialmente, intendo. Ovvero: inventato il motore a scoppio e tramontato il trasporto a traino animale, che fine hanno fatto i cocchieri? La risposta la sappiamo…anche a prescindere se ciò che è accaduto sia buono o cattivo.

  3. 29 Agosto 2015 Claudia Silivestro

    problema reale.. Facebook può servire a farmi sapere…un buon articolo di giornale “dovrebbe” aiutarmi invece a capire..lavoro più difficile e non è detto che riesca

  4. 30 Agosto 2015 Saverio Paffumi

    Concordo su tutto salvo la chiusa. Il corpus delle regole avrebbe un senso se effettivamente, rigorosamente rispettato da tutti i colleghi. Ve ne possono essere alcune da riformare, ma bisognerebbe entrare nel merito e dire quali. La Carta di Treviso, a mio parere, e’ una delle piu’ efficaci e meglio congegnate.

  5. 30 Agosto 2015 Stefano Tesi

    I punti sono due, Saverio. Il primo è quello che dici tu: un corpus di regole rispettato da tutti i colleghi. I secondo è un corpus di regole che, rispettato o meno, diventa una gabbia terminologica che alla fine nuove all’effettività dell’informazione. E’ vero, bisogna valutare caso per caso, ma il nodo rimane. Resta il fatto che avere norme professionali scavalcate, nelle loro cautele, da tutto il resto del mondo, diventa inutile, frustrante e fuorviante. E’ come se tutte le auto della polizia dovessero rispettare un limite di velocità che per gli automobilisti normali non esiste o non è sanzionato.

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