da "Libero"

Dal gustoso scambio di indirette polemiche sollevatosi a seguito di un mio recente post (qui) sui “blogger” che scroccano viaggi e tostapani con la scusa di “informare” nascono alcune riflessioni, paradossalmente ottimistiche, sul futuro della professione.

Mi scuso pubblicamente con le casalinghe di Voghera, da me spesso evocate come modello di uso utilitaristico e disinvolto, in chiave furbesco-dilettantesca, della rete. Ho scoperto infatti che ne vivono di simili anche altrove.
Ma proprio la risentita e un po’ sgrammaticata canizza sollevata a fine 2014 da certe comunità di “blogger” (espressione tra l’altro priva di significato, ma ce ne occuperemo in altre occasioni), risentite perchè gli avevo sollevato la foglia di fico demandata a camuffare per informazione indipendente le loro marchette più spudorate e perfino confesse, può tornare ancora una volta molto utile per parlare in modo serio della professione giornalistica. Da svariati punti di vista.
L’altro giorno mi sono occupato (qui) dell‘indifferibile, in ogni campo, necessità di trasparenza.
Gli aspetti interessanti sono però anche altri.
Sì perchè, magari senza rendersene del tutto conto, su alcune cose i blogger e il loro tifo da stadio hanno ragione.
Ad esempio sul fatto che, in molti settori, il livello del giornalismo e la soglia deontologica del medesimo sono scesi così in basso da annullare la differenza tra la categoria di chi scrive per diletto (e senza obblighi, se non puramente etici, civili o penali), chi per tornaconto (obblighi fiscali inclusi) e chi per lavoro (con gli obblighi professionali che ne conseguono).
Allora proviamo a riflettere.
Qual è l’anello di congiunzione tra il dilettante puro, uno che scrive su internet per divertimento, e uno che fa informazione, cioè un giornalista di mestiere?
Fino a ieri pensavo fossero i tanti colleghi che lavorano gratis, inseguendo non si capisce cosa e campando, con ogni evidenza, di altri redditi o proventi.
Ma forse sbagliavo. Esiste un ulteriore gradino. Quello su cui sta chi, senza essere giornalista e senza (teoricamente) neppure trarre guadagni in denaro da ciò che fa, scrive ricavando comunque delle utilità materiali in termini di beni o servizi. Ovvero la casalinga (di Voghera o meno) che, con la scusa di “recensire” creme, elettrodomestici, alberghi, ristoranti e compagnie aeree, li ottiene gratis e poi “rivende” in rete (ad uso più degli sponsor che dei lettori, invero) le sue esperienze. Fino al paradossale caso in cui la medesima, invece di dispensare gratuitamente a compari e seguaci il know how per lo scrocco scientifico, lo mette in vendita pubblicando un manuale a pago.
Potrebbe sembrare la fine del giornalismo. Del giornalismo professionale, intendo. E invece, forse, non lo è.
Perchè più si allarga la marmellata della falsa informazione, della pubblicità camuffata o occulta, dell’ambiguità di ruoli e di figure, del lavoro autonomo che non è lavoro, etc e sempre più ci sarà bisogno, per le cose serie, di giornalisti veri e di informazione vera. Come scriveva giorni fa Carlo Gubitosa a chiosa di un mio post (qui): “Il dilettantismo che si nasconde dietro la foglia di fico del lavoro autonomo. La professionalità ha un costo“.
Se vi si guasta il rubinetto, forse potrete anche chiamare il portiere del condominio a fianco che, in nero, ve lo rabbercia. Magari fate pure bene. Idem se vi si impalla un programma sul pc. Ma se si rompe l’autoclave e si allaga la casa o se c’è da resettare sul serio un computer con dentro anni di lavoro, sarete i primi a correre dal professionista, disposti a pagare oro affinchè vi risolva presto e durevolmente il problema.
E’ lo stesso che credo comincerà ad accadere (in realtà non ha mai cessato di essere così, ma con la crisi economica e sotto la spinta del giornalistificio si è arrivati a livelli minimali) con l’informazione: la fuffa, l’infotainment, i pubbliredazionali, le marchette da una parte, l’informazione seria dall’altra. La quale avrà sempre un valore economico, una domanda e, quindi, un prezzo.
Tutto questo passerà necessariamente, lo so, da un drastico ridimensionamento della professione in termini almeno quantitativi. Farà morti e feriti.
Mi pare però un sacrificio non solo necessario, ma inevitabile, da affrontare.
L’importante è che sia selettivo e non casuale.