Parlarne male è uno sport nazionale e qualche buona ragione c’è. Eppure, alla fine, la fiera veronese è stata un successo. Forse perchè è sempre se stessa, anche nei difetti. Ecco qualche notazione ex post, in libertà.

 

Mentre ribolliva il dibattito su Vinitaly sì e Vinitaly no, su chi c’era e chi non c’era, sulla tenuta del “modello fiera“, sui costi esorbitanti e sulla sistematica rapina della triade ristoranti-hotel-parcheggi ai danni di espositori e visitatori, la cinquantacinquesima edizione della kermesse veronese si chiudeva in un’atmosfera di tranquillizzante normalità e di solide conferme.

Eccole, in ordine sparso.

W gli uffici stampa.

Come noto, sono uno strenuo difensore di chi svolge con professionalità uno dei mestieri più difficili e ingrati che esistano. E il Vinitaly è, in questo senso, una prova terribile da superare. Quindi diciamolo: bravo l’ufficio stampa dell’ente-fiera, che con un’accorta ma non occulta azione di filtro e verifica è in buona parte riuscita a “ripulire” il parterre dei giornalisti dall’assedio di infliltrati, vispe terese, aspiranti e furbetti di varia natura, rendendo il contesto vivibile e “lavorabile”. Grazie.

Lo stesso dicasi per le decine di professionisti che, pressati da committenti spesso incontentabili e giornalisti spesso insopportabili, si sono districati nella titanica impresa di portare a termine il proprio lavoro, restando sempre disponibili, sorridenti, collaborativi e mai petulanti. Ovviamente anche quelli petulanti e approssimativi non sono mancati, ma almeno a me sono apparsi in minoranza.

Il caro-Vinitaly c’è davvero?

Ingressi privati a 120 euro, biglietti per le aziende a 44 euro. Tutti a dire che il prezzo è diventato carissimo, ma filtro necessario contro la carica degli sbevazzoni.

Alla fine della fiera (appunto), delle tre l’una: o l’Italia è un paese di ricchi occulti, o qualcuno fa bagarinaggio (compro a 44, rivendo a 70 e i conti tornano), o il costo del biglietto è ancora troppo basso. Nei padiglioni è stato sempre pieno, quando non pienissimo (opinione sia autoptica mia che di copiosi espositori e colleghi interpellati ad hoc) con presenza non molesta, ma evidente, anche di cantori di “Romagna mia” e di sedicenti ristoratori organizzati a guisa di gita scolastica.

It’s rave, ma mi piace per questo.

Lo chiesi anni fa e l’ho richiesto quest’anno, ma la risposta è stata sempre la stessa: il “casino” vinitaliano ci piace. Lo dicono i giornalisti e i compratori stranieri, i quali confessano che alla fine anche a loro garba mollare gli ormeggi e fare come gli automobilisti svizzeri in A1: realizzo altrove ciò che non mi è permesso a casa mia. Insomma, l’italianità del Vinitaly, che un po’ conformisticamente è d’obbligo denigrare, può anche darsi che sia la chiave del suo successo e della sua palpabile vitalità. Non solo algido business su appuntamento, ma un rigenerante tuffo nell’umanità? Mescoliamoci così, senza pudor.

Ma le cosce sì.

I forsennati del politicamente corretto, le vestali degli abbagli di genere, i rompipalle professionali del moralismo si mettano il cuore in pace: una bella donna che, senza esagerare, non nasconde le sue grazie è sempre gradita, non solo ai maschi, e rappresenta in qualche misura una tuttora efficace leva di marketing. Lo dimostrano tanto alcune ragazze slave di uno stand davvero anonimo, ma frequentatissimo, quanto – ed è più importante – le numerose espositrici, standiste, produttrici e visitatrici che non hanno rinunciato a un po’ di civetteria, nonostante una presenza di pubblico femminile assai più massiccia, e quindi in teoria di “osservatori”, di qualche anno fa e un contesto decisamente faticoso per chi indulge in abiti e scarpe impegnativi.

Meno piegamento e più distensione.

Chi rimpiange la tecnica sciistica vecchio stile capirà meglio. Ho visitato oltre cinquanta tra stand, eventi, appuntamenti e pressochè sempre ho trovato gli addetti ai lavori magari stanchi, ma distesi. Meno facce disfatte, meno sorrisi tirati che in passato. Il motivo non lo conosco, forse era l’atmosfera allegramente operativa che si respirava un po’ ovunque, forse il bel tempo e i servizi che, mi risulta, hanno sempre funzionato. Tutto vanificato dai 75 minuti di immobilità al volante per uscire dai parcheggi, ma questo è ormai il dazio cronico del Vinitaly. L’unico, quello della logistica, che potrebbe davvero affondare una fiera che, di fatto, si svolge ormai in città

Attenzione, però: il trapasso della Bit di Milano, il Vinitaly del turismo che per quarant’anni è stato il punto di riferimento del settore viaggi, cominciò col suo spostamento dalla sede storica cittadina davanti al Vigorelli al quartiere fieristico di Rho-Pero…

Arcipelago Vinitaly.

L’aggregarsi, attorno alla fiera principale, di ormai tante sottofiere, sottoeventi, sottoraduni e sottokermesse, non disgiunti dalla moltiplicazione delle opportunità mondane in giro per la città e i dintorni (anche troppe per i miei gusti, ma al 90% della gente tutto ciò piace al punto da indurla a conservare energie sufficienti a frequentazioni ricreative dopo nove-ore-nove di Vinitaly) fa dell’appuntamento veronese una sorta di holding. O, se vogliamo, una sorta di grande muraglia che, anzichè indebolirlo, lo rafforza. Grazie al fatto che l’apparente frammentazione si è ormai trasformata in un conglomerato assai coeso, ove la gente si travasa da un luogo a un altro senza mai, in sostanza, cambiare sistema enosolare.

In definitiva…

…in definitiva, a mio modesto parere e dal mio punto di vista professionale, la morale è sempre quella: venire la Vinitaly magari non serve a nulla, ma non venire è un danno. Tu chiamala, se vuoi, funzione sociale: ci si incontra, ci si vede, ci si spia, ci si ritrova, si scopre, si spettegola, si osserva, si assaggia, si prova, si verifica, si svicola, si impreca, ci si conosce, ci si saluta. It’s a (brave) rave…