Al TTG di Rimini l’irruzione di qualche fashion blogger minigonnata increspa l’euforia casual dei travel blogger: un’invasione di campo che riapre il dibattito sull’identità professionale di queste figure e rilancia i temi discussi al Dig.it del 3 ottobre.

Molti pensano che io detesti i cosiddetti blogger, ma non è vero.
Detesto invece l’uso identificativo che oggi si fa di questo termine generico: il blog è uno strumento e il blogger è quindi chi lo usa, come l’automobilista è uno che usa l’auto a prescindere dalla professione o dallo scopo per cui se ne serve.
Ne consegue che può esserci il blogger da diporto e quello professionale.
Ma in questo secondo caso, di che professione si tratta?
L’argomento è abusato. Mi è tornato però in mente venerdì scorso al TTG di Rimini (qui), la fiera del turismo trade oriented che sta lentamente soppiantando l’agonizzante BIT milanese.
Il TTG era pieno di blogger, o meglio di travel blogger.
Per loro era stato allestito addirittura un evento ad hoc (qui) con tanto di ospitalità gratuita per tutti i giorni della manifestazione e consacrato agli “speed date” tra i medesimi e i rappresentanti di enti del turismo, consorzi, catene alberghiere, etc con il fine di facilitare la reciproca conoscenza per la combinazione di futuri reportage. Avevo tentato di iscrivermi all’ultimo tuffo, ma era già tutto pieno.
A rappresentare gli operatori – tanto per capire l’importanza strategica data al blogging dalla fiera e da chi vi partecipa – non gli ultimi sfigati delle varie delegazioni di espositori, ma i capi o i responsabili della comunicazione dei medesimi. Insomma, dal punto di vista dei risultati commerciali il meccanismo della propaganda affidata alla viralità del web e all’apparente genuinità – spesso un po’ sempliciotta, va detto – dei blog, funziona.
Assistere alle manovre e ai corteggi è stato interessante.
La sensazione che ne ho ricavato è la conferma dell’esistenza di un gran pentolone nel quale, tra molti fumi, cuoce di tutto. E’ nata ad esempio un’associazione dei travel blogger dalla fisionomia piuttosto indefinita, ma ho scoperto che esistono anche altre organizzazioni di natura esplicitamente business. Ci sono gli scafatissimi blogger con partita iva e press kit che macinano fatturati da media impresa e ragazzine dall’aria sognante che, anziché sul diario, in cameretta scrivono in rete il racconto delle vacanze a Riccione.
Il tutto in un’orgia di anglicismi (influencer, testimonial, follower, seo, etc) il cui reale scopo è forse di nascondere dietro una cortina tecnica un fatto banale: quello della comunicazione veicolata in rete è sempre più un affare e sempre meno un hobby.
Da qui la necessità ormai inaggirabile di dare da un lato alla figura del blogger una fisionomia legale e fiscale definita, che conferisca anche dignità a questa nuovo soggetto professionale; dall’altro, di mettere in chiaro che ciò che essi producono è marketing e non informazione, visto anche che nessuna norma li obbliga, al di là dell’onestà morale del singolo, a rispettare trasparenza e regole deontologiche.
Quanto alla qualità dei contenuti prodotti, che in teoria sarebbe la cosa più importante, ognuno si faccia un’idea andando a leggersi un po’ dei loro reportage.
A conferma delle mille anime che popolano il pentolone e della rapidità dei continui cambiamenti che si registrano al suo interno, è stato però divertente assistere ai reciproci mal di pancia che provocano le invasioni di campo tra esponenti dei diversi settori del blogging: a Rimini ha creato ad esempio una certa tensione l’ammissione, tra decine di travel blogger acqua e sapone, di inattese e sussiegosissime fashion blogger in push up, tacco 12 e scosciatura d’ordinanza. Già, perché anche per seguire la moda si viaggia. E quindi una fiera dei viaggi e chi vi partecipa interessa eccome a chi si occupa di borse, scarpe, abiti. Si preannuncia anzi il ritorno in chiave digitale della “moda in viaggio” che una quindicina d’anni fa ridette fiato alla stampa cartacea del settore.
Racconto tutto questo, però, non per piacere di aneddotica.
Ma perché, passeggiando appunto tra questa fauna e conversando con qualche amico, mi è tornato in mente quanto emerso sabato scorso al Dig.it di Prato durante l’acceso dibattito sulla praticabilità della figura del giornalista-imprenditore (ne ho riferito qui). Quando più d’uno ha sostenuto il fatto che “anche il giornalista deve campare” e che nulla c’è di male se, a latere di quest’attività deontologicamente vincolata da una legge professionale, ne coltiva altre. Tra cui quella, molto più libera, del blogger e/o dell’erogatore di “servizi di consulenza”.
Idea che non condivido, perchè possibile ai soli pubblicisti e perchè tradisce una concezione dopolavoristica del giornalismo, ma che calza a pennello con quanto visto a Rimini: non solo l’arrivo di nuovi attori nel già opaco universo della comunicazione di settore, ma cerchie di soggetti in concorrenza che si sovrappongono tra di loro, confondendosi e rubandosi a vicenda un “lavoro” che ormai non si sa più nemmeno quale sia.
Ecco come mai torno all’affermazione fatta all’inizio: non ho niente contro i blogger e anzi credo che, nel loro interesse, sarebbe ora che qualcuno stabilisse con chiarezza qual è la natura di questa attività, dandone una definizione formale.
Altrimenti si corre il rischio che nascano cose tra il grottesco e il ridicolo come quelle che mi è parso di intuire leggendo lo statuto dell’associazione dei blogger di viaggio: ci si autonomina rappresentanti e tutori degli interessi di una categoria che, se non esiste, non può avere controparti nè interessi e, se li ha, nessuno ha ancora capito quali siano e devono essere ancora individuati.
Oppure molto presto i blogger si troveranno nella necessità di doversi organizzare per difendersi professionalmente dai loro stessi sedicenti colleghi.
Sarebbe un vero contrappasso per chi, senza capire la differenza sostanziale tra le due posizioni, aveva eletto i giornalisti come propri nemici istituzionali.