Pollera, Barsaglina, Albarola, Durella (ma anche Syrah e Merlot): una piccola azienda della Lunigiana, nata sui resti di un cenobio longobardo, recupera e vinifica le antiche varietà locali. Con risultati interessanti.

 

Qualcosa mi dice che la storia dei vitigni antichi, perduti, abbandonati o dismessi sta per vivere un nuovo capitolo.

E’ un facile vaticinio: da tempo infatti ronza nell’aria quello che chiamerei il secondo approdo (dopo la prima ondata di vent’anni fa, che in Toscana fu dei Foglia tonda e del Pugnitello, per capirsi) di certe varietà, finora neglette, alla produzione commerciale.

Sia chiaro: qua e là i vignaioli che con ostinazione hanno continuato nel tempo a coltivare e a fare vini con i vitigni “strani” ci sono sempre stati. Ma erano un po’ mosche bianche, avevano produzioni minime (e, ammettiamolo, non sempre apprezzabili) e costituivano più una curiosità che una realtà economica.

Da qualche tempo le cose sono cambiate.

L’attenzione è cresciuta (diamo atto di questa sensibilizzazione anche all’incessante lavoro di ricerca e divulgazione del Crea di Arezzo guidato da Paolo Storchi) e le aziende hanno compreso dapprima il potenziale d’immagine insito nell’avere in catalogo qualche vino da uve “strane” e poi il fatto che certi vini potevano avere anche un proprio mercato.

Questo è uno dei motivi per i quali ho assaggiato volentieri i vini del Monastero dei Frati Bianchi. L’altra è che, oltre agli autoctoni, coltivano anche internazionali ed ero curioso di vedere come gestivano le due cose.

A dispetto del nome, il Monastero dei Frati Bianchi è una piccola azienda di appena sette ettari (di cui solo tre attualmente in produzione) ubicata a Fivizzano (MS), in Lunigiana, e creata nella primavera del 2004 da Giorgio Tazzara.

Fu qui che – nelle terre appartenute prima a un convento longobardo, poi ai benedettini (i “Frati Bianchi”, appunto), poi ai D’Herberia e infine ai Malaspina – Tazzara individuò alcune vigne in disuso e decise di recuperarle. Operazione non facile: terra aspra e selvaggia, vallate e colline punteggiate di borghi, forti escursioni termiche. Ma in campo c’erano due piccoli e autoctoni tesori ampelografici: la Pòllera e la Barsaglina.

La prima mossa fu la ripropagazione delle barbatelle, l’espianto del vecchio impianto e un reimpianto razionale, agronomicamente adeguato. La seconda fu mettere a dimora una vigna di internazionali come Merlot e Syrah. La terza è stata, nel 2019, entrare in società con la famiglia Bernardini per espandere gli orizzonti aziendali. E  l’ultima creare un terzo vigneto con altri due autoctoni, ma stavolta bianchi: Durella e Albarola.

L’attuale produzione copre cinque vini, per un totale di circa 15mila bottiglie l’anno.

Li abbiamo assaggiati quasi tutti nel corso di un’interessante degustazione all’Osteria del Pratellino di Firenze, in abbinamento a piatti studiati ad hoc dal patron Francesco Carzoli.

Unico appunto: mancava il quinto, il Cenobio Toscana Igt, ed è un peccato perchè è fatto col 60% di Merlot, il 20% di Pollera e il 20% di Barsaglina, insomma un vino crossover e bandiera dell’azienda. Peccato.

 

Margine 2021 Valdimagra Igt (Vermentino 50%, Albarola 20%, Durella 20%, Chardonnay 10%)

Al momento è l’unico bianco aziendale, resta sulle bucce per 3 giorni, matura per 9 mesi in acciaio e 6 in bottiglia.

Al color giallo oro pieno corrisponde un naso ampio, pieno, profondo ma non aggressivo, con delicati richiami di toffees e di mou che riaffiorano nel retrogusto, mentre in bocca il vino ha spiccata sapidità e una piacevole nota amarognola. Si “mangia” letteralmente le gallette ripiene di cappon magro e la zuppa di cereali alle quali era abbinato.

 

Barsarè 2020 Toscana Igt (Barsaglina 100%).

La Barsaglina è un vitigno a bacca rossa autoctono della provincia di Massa Carrara, progressivamente lasciato in disparte, spiega Giorgio Tazzara, per la sua tendenza naturale alla riduzione. E’ un’uva molto colorata e tannica, che la rende simile al Vermentino nero. Il vino fa 15 mesi di tonneaux e 12 in bottiglia.

Rubino molto intenso, con riflessi purpurei. All’olfatto è potente, concentrato e diretto, sa di frutti rossi selvatici con una pungente punta speziata. In bocca è importante, quasi torrenziale, molto tannico: un vino promettente, da lasciare maturare ed aprire tra qualche anno. Azzeccato l’abbinamento con gli involtini di maiale in salsa.

 

Pòlleo 2020 Toscana Igt (Pollera 100%).

La Pollera è una varietà autoctona della Lunigiana, forse imparentata con la Grenache, caratterizzata dalla scarsità di colore e da una certa fragilità della buccia che la espone agli attacchi di muffa. Il vino fa 15 mesi di tonneaux da 500 e 700 lt.

Di colore tipicamente scarico, all’olfatto è composto, diretto e pulito, con una bella intensità di frutto e accenni balsamici. Bene anche in bocca con la sua spiccata freschezza, una piacevole levità e una nota amarognola che rendono l’insieme elegante. Davvero buono con gli (ottimi) testaroli pontremolesi.

 

Deir 2018 Toscana IGT (Syrah 60%  e Merlot 40%).

Il vino matura per 15 mesi in barrique e tonneaux

Il vino ha il previsto colore impenetrabile. Al naso emergono subito le note speziate e pepate del Syrah, che poi si fondono con la morbidezza del Merlot. In bocca è composto ed ampio, niente affatto caricaturale ed anzi assai godibile in una sorta di gaia rotondità. Molto bene nel suo genere e riuscito l’abbinamento con un sostanzioso peposo al pomodoro.