Arrivano a cascata le considerazioni innescate dalla riunione fiorentina di sette giorni fa, inclusa la naturale tendenza alla “normalizzazione” di un clima che, su tanti temi, era parso piuttosto agitato. Grasso che cola per chi, dietro alle teorie dialettiche della qualità e della formazione, cerca di nascondere la crudezza della verità.

In ogni settore la retorica ha le sue parole magiche. Una di quelle trasversali, buona per tutti gli usi, è “qualità”: concetto talmente ovvio da essere gradito a tutti e talmente vago che nessuno capisce, in concreto, cosa voglia dire. Esempio: “turismo di qualità”. Cioè? Un turismo fatto da turisti ricchi e che quindi spendono? O un turismo che offre luoghi, esperienze, servizi soddisfacenti a costi ragionevoli? Boh. E’ meglio un turista spendaccione ma ottuso o un turista sensibile ma taccagno? Mistero.
Lo stesso vale per la “qualità” applicata al giornalismo. Tutti la invocano, bella scoperta. Ma che vuol dire? In teoria è chiaro: un’informazione ricca, oggettiva, completa e puntuale fatta da un giornalista bravo, scrupoloso, rapido ma attento, obbiettivo e che sa scrivere. Quadretto idilliaco. Utopia assicurata.
E’ infatti all’utopia che, incalzato dai rivendicanti, il presidente della Fieg, Carlo Malinconico, si è attaccato durante l’abbastanza penosa tavola rotonda della recente “Carta di Firenze”, invocando a contrappeso delle richieste economiche e contrattuali avanzate da precari e freelance un prodotto “di qualità”.
Sia chiaro: la qualità esiste. Eccome se esiste. Ma ha un costo. Il caviale costa il decuplo delle uova di lompo, il suo succedaneo. Quindi la qualità si paga. Peccato che, nell’informazione, la qualità consista di due elementi: la profondità e l’ampiezza, cioè la capacità di dare notizie e quella di darle dal massimo ambito geografico e tipologico possibile. Il che, tradotto, significa molti giornalisti bravi, in una rete di redazioni ragionevolmente numerose e ben distribuite sul territorio di competenza.
Ora, siccome è noto a tutti che oggi il 70% del pubblicato fa capo a giornalisti esterni, ma che al pagamento di questi è destinato solo il 5% delle risorse degli editori, l’evidenza è solare: a queste condizioni economiche non si potrà mai avere l’informazione di qualità invocata dalla Fieg per sfuggire all’assedio del malcontento.
Ma c’è di più.
A causa degli effetti inflattivi sulla professione prodotti dal giornalistificio nazionale, che ogni anno vomita nel sistema qualche migliaio di nuovi pubblicisti senza averne minimamente testato l’acquisita capacità professionale (peraltro richiesta per legge), la massa tra cui quel miserrimo 5% va suddivisa cresce di continuo e già da anni ha prodotto una sorta di permanente lotta per l’accaparramento delle briciole. Lotta che fa somigliare i giovani (e non) giornalisti a certi superstiti delle calamità naturali destinatari dei pacchi viveri lanciati dall’elicottero: pugni, calci e coltellate per arraffare l’arraffabile, senza neppure sapere cosa. E con la certezza di restare comunque affamati.
Mica è un caso, del resto, che in Italia i giornalisti (di nome) siano almeno 110mila, cioè il triplo che in Francia. E che di questi 110mila, ne risultino attivi (cioè produttori di un reddito di almeno 5mila euro, somma peraltro infinitamente inferiore alla soglia minima della sopravvivenza professionale e non) appena 45mila, di cui 20mila subordinati e 25mila autonomi.
Sapere perché è così?
No, la qualità non c’entra.
C’entra il fatto che, in Francia (lo dice, qui, Ldsi), per ottenere la qualifica di giornalista, bisogna dimostrare di avere un reddito da lavoro almeno uguale alla metà del salario minimo nazionale, fissato a 1078 euro netti al mese. Insomma, Bisogna dimostrare di guadagnare attraverso il proprio lavoro.
Ecco perché, come qualcuno giustamente ha sottolineato, non sembra molto praticabile la via disciplinare all’equità retributiva di precari e freelance che sta alla base della “Carta di Firenze”, come se sanzionare (nei modi noti, poi) direttori e caporedattori che hanno le mani legate dai budget fosse un impulso ad offrire compensi migliori ai non contrattualizzati. Ben che vada, produrrà casomai il mai inutile allontanamento di qualche collaboratore meno capace o efficiente.
Ma neppure ci si illuda che a incidere il bubbone e a evitare l’inevitabile drenaggio di una professione troppo inflazionata possa servire l’altra parolina magica della “formazione”, che già da qualche parte fa capolino. La formazione va fatta prima di diventare giornalisti, non durante. E serve per diventarlo, un giornalista, non per continuare ad esserlo. Offrire opportunità formative a una categoria che muore di fame è come offrirle lo zucchero a velo delle famose brioches di Maria Antonietta.