La crisi post Covid 19 rischia di porre fine una volta per tutte all’agonia della libera professione giornalistica. Molti colleghi mi hanno chiesto che strategia adottare per salvare la pelle. La mia personale opinione è quella descritta qui sotto.

 

Nei frenetici giorni del pre cric-day (per chiarimenti, qui) ho ricevuto dai colleghi decine di telefonate e di messaggi. Molti per sapere chi e come avesse diritto al bonus per i giornalisti libero professionisti, altrettanti per sapere cosa ne pensassi e quali sbocchi vedessi per una situazione che trova la professione in un vicolo cieco: quale strategia si potrebbe adottare?

Preciso che non sono nè un commercialista, nè un profeta. E che, pertanto, nel primo caso mi sono limitato ad esporre le mie impressioni e le poche nozioni certe che avevo appreso da un’attenta lettura di decreti, comunicati, giornali, etc.

Per il secondo mi sono sbilanciato un po’ di più.

Non perchè, come precisato, io sia in grado di predire il futuro ma solo perchè, a mio avviso, il quadro è da tempo così ineluttabilmente chiaro che c’è poco da prevedere: è tutto scritto, basta volerlo leggere.

Il messaggio è il seguente: si salvi chi può.

Detto in modo meno brutale: la guerra è perduta, cerchiamo almeno una resa onorevole. Dove per resa onorevole intendo:

  1. un accompagnamento dignitoso alla morte professionale di chi è, all’incirca, over 55.
  2. una rapida disillusione e un ventaglio di alternative realistiche per chi è under 30.

Resta il problema di cosa offrire a chi è tra i 30 e i 55, cioè troppo vecchio per cambiare mestiere e buttare al vento gli anni di carriera già accumulati, ma troppo giovane per puntare all’eutanasia.

A una collega ho detto “vendiamo cara la pelle“, cioè resistendo a oltranza.

Ma come? Nessuno è un eroe, nessuno campa d’aria, molti portano sulle spalle responsabilità economiche anche per altri: figli, coniugi, genitori.

Premesso che, comunque, di fare il giornalista e meno ancora il freelance non l’ha ordinato il dottore – quindi non c’è nulla di umiliante a smettere quando non esistono più le condizioni reddituali per continuare: anzi, saper dire basta al momento giusto e/o cambiare settore, o perfino mestiere, è proprio una delle qualità che a un libero professionista si richiede di avere – la mia idea di resistenza è la seguente.

  • cessare le collaborazioni pagate troppo poco o non pagate affatto: se devo lavorare gratis, preferisco scrivere per hobby, cioè quando voglio, se voglio, se posso, etc senza dover ringraziare nessuno e potendomi dedicare proficuamente ad altro;
  • cessare di pagare le quote ai responsabili principali di questa catastrofe, ovvero l’Fnsi detta Fnsieg (io l’ho fatto vent’anni fa), che in materia di freelance, chiacchiere e commissioni di rito a parte, dopo trent’anni casca ancora dal pero, e l’OdG, artefice dell’altrettanto trentennale, cieco giornalistificio che ha reso la categoria pletorica grazie allo scellerato, progressivo abbassamento delle soglie per l’accesso alla professione;
  • fare pressione di massa sull’Inpgi2 affinchè i soldi (comunque nostri) accumulati dall’ente non vadano, come già qualcuno vorrebbe che accadesse, a coprire le voragini di bilancio dell’Inpgi;
  • mobilitarsi a ogni livello, prima che sia tardi causa estinzione, affinchè la politica prenda atto dell’esistenza della libera professione giornalistica come attività “piena” e non residuale (quale attualmente è inquadrata anche a livello previdenziale) e aggiorni la normativa (con conseguente riforma dell’Inpgi2 da ente atto a dare copertura pensionistica “pro forma” a ente capace di offrire previdenza seria: il che, sottolineo, per i freelance consisterà anche nell’obbligo di fare accantonamenti previdenziali seri, cioè molto più elevati di adesso);
  • attivarsi come al punto d) affinchè, scavalcaldo le pietose schermaglie politico-dilatorie messe in atto dalle istituzioni giornalistiche, si giunga in breve ad una definizione rigorosa e all’attivazione di norme cogenti in materia di equo compenso del lavoro giornalistico autonomo, fissando una soglia minima inderogabile valida sempre e per tutti (50 euro?) che possa fungere, come stabilito dal codice civile, da base per la successiva contrattazione individuale a salire tra l’editore e il giornalista (perchè se di fare il giornalista non l’ha ordinato il dottore, nemmeno di fare l’editore lo ha ordinato il dottore, men che meno senza i soldi per pagare i collaboratori);
  • prendere atto che la realizzazione dei punti d) e e) comporterà la brutale espulsione dal mercato professionale di tutti coloro i quali non saranno in grado, per potere contrattuale, capacità, tenacia, esperienza, etc di sostenere il parallelo incremento qualitativo minimo delle prestazioni giornalistiche che i punti indicati implicano, ovvero il 70% del totale, ma darà una prospettiva concreta al rimanente 30%.

E’ poi anche inutile nascondersi dietro a un altro dito e fingere di non sapere che il terremoto economico innescato dal virus darà probabilmente la spallata finale a un’industria editoriale in gran parte zoppicante, rimasta finora in piedi asciugando all’osso le redazioni e mettendo alla fame i collaboratori, pur nella generale consapevolezza dell’indispensabilità di questi ultimi come portatori di idee, di notizie, di proposte, di articoli.

Ciò che sta accadendo in queste settimane in alcuni dei primari gruppi italiani del settore è il sintomo chiaro che l’implosione è, se non certa, probabile.

E non ne è immune nemmeno la pur vagheggiata galassia dell’on line, rettasi finora sul vantaggio di immobilizzi industriali prossimi allo zero offerti dal web: nel momento in cui le testate digitali dovranno pagare i giornalisti come quelle cartacee, faranno la stessa fine delle prime e dovranno fronteggiare esattamente gli stessi problemi.

Sarà interessante ritrovarsi qui tra un anno e vedere che è successo.